I bambini non vogliono il pizzo: recensione libro

Margherita è una ragazzina bionda e ricciolina, che vive felice e spensierata con i genitori, la mamma Laura e il papà Saverio. Un giorno entra in classe eccitata ed euforica, annunciando ai suoi compagni l’inaugurazione della pizzeria di famiglia, il Re Calzone. La festa riscuote nel paese un grande successo, finché non viene guastata dall’atto vandalico di un compagno di classe di Margherita, il bullo Salvo, che passando sul suo motorino lancia un sasso contro il vetro della pizzeria. Ma Salvo non è un ragazzo qualunque: è il nipote di Vito Spezzafagno. La ragazza informa la maestra Rosa dell’accaduto, la quale le promette di parlare con i genitori del suo compagno di classe. 

Gli affari di famiglia proseguono a gonfie vele, finché una sera entra al Re Calzone Angelo Spezzafagno, il quale ordina un calzone con la pancetta ma non paga, anzi è il padre di Margherita che prende dei soldi dalla cassa. La bambina osserva la scena, non capendo cosa stia succedendo, e decide di parlarne con la maestra. Rosa spiega all’alunna che si tratta della riscossione del pizzo da parte della malavita locale e dialogando coi suoi compagni di classe Margherita comprende che non è la sola a trovarsi in questa situazione, ma anche altre famiglie hanno subito le stesse ingiustizie da parte delle stesse persone. 

Il padre Saverio non si ribella e sottostà alle richieste degli Spezzafagno, finché alla richiesta di ottenere una quota di pizzo doppia i genitori di Margherita non accettano l’imposizione perché di soldi davvero non ce ne sono più. I mafiosi allora risolvono la questione a modo loro, incendiando i locali del Re Calzone, dopo varie intimidazioni e minacce. A questo punto è la maestra Rosa a svegliare le coscienze dei bambini e a spronare i genitori:

Ragazzi, ora dobbiam fare sul serio.
Io penso a Marghe, voi avete da fare,
non aspettate, andate a denunciare!
Anche noi a scuola dobbiamo intervenire
perché i bambini devono sentire
che siamo tutti parte di un insieme,
non può star male uno e gli altri bene.
Ho un amico che di queste cose è esperto, 
lo invito a scuola, accetterà di certo!

Così bambini e genitori si uniscono coraggiosamente e decidono tutti insieme di denunciare quanto subito ad opera degli Spezzafagno, che verranno arrestati, e la scuola verrà intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

È questa la trama di I bambini non vogliono il pizzo, il libricino per bambini di Anna Sarfatti, già autrice del bestseller La Costituzione raccontata ai bambini, che sotto forma di filastrocca rimata e in maniera lieve e delicata insieme alle illustrazioni di Serena Riglietti cerca di spiegare e di approfondire un tema che deve toccare sempre più le nostre coscienze civili di cittadini e che deve essere appresa fin dai banchi di scuola, per averne da adulti una maggiore consapevolezza e conoscenza critiche. La parola danneggia molto di più il sistema mafioso di un silenzio assenso, come i fatti degli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato.

Nella presentazione del libro Maria Falcone, sorella del magistrato afferma: “Credo che sia molto importante che fin da piccoli i ragazzi conoscano l’esistenza della violenza e della criminalità organizzata e credo che sia ancora più importante che vi siano degli insegnanti che indichino delle strade percorribili per la lotta civile, come racconta questa storia“. Non bisogna escludere i più giovani da contenuti che sembrano a prima vista al di sopra delle loro possibilità, ma bisogna semplicemente saperli trattare e presentare nelle modalità a loro più adatte e consone, come l’autrice ha saputo fare molto bene. Una storia non solo per i piccoli, ma per tutti coloro che vogliono cominciare a riflettere e a porsi delle domande.
Lucia Piemontesi

La battaglia che cambiò la seconda guerra mondiale: Pearl Harbor – Recensione libro

L’aggettivo “proditorio”, da sempre associato all’attacco giapponese del 7 dicembre 1941 alla flotta statunitense del Pacifico ancorata a Pearl Harbor, basta da solo ad avvertire che la storia dell’apocalittica sconfitta americana è ancora pregna di emozioni e sentimenti e che finora non è stata possibile una universale scrittura obiettiva dell’evento. Un passo deciso in tal senso viene fatto da Roberto Iacopini, giornalista Rai, nel libro “La battaglia che cambiò la seconda guerra mondiale: Pearl Harbor”, appena uscito per Newton Compton. Un resoconto incalzante e avvincente dell’operazione bellica, cui l’autore arriva dopo una illuminante disamina dei sommovimenti geopolitici che sconvolsero l’Asia negli anni Trenta del secolo scorso.

Iacopini illustra con scioltezza narrativa, senza appesantire il lettore con pedanti resoconti, come nacque e come si affermò il “militarismo” nipponico, formula usata acriticamente nei testi di storia e qui resa viva e comprensibile. Senza mai indulgere in revisionismi, Iacopini ci porta a capire come l’attacco fosse non solo prevedibile, ma inevitabile, vista la piega che gli stessi americani avevano dato al negoziato con i rappresentanti del Sol Levante nelle settimane precedenti. Adeguato spazio viene impegnato per illustrare la tesi – mai provata – che vedeva nel presidente Roosevelt il regista occulto dell’azione giapponese, che spinse in guerra gli Stati Uniti, rovesciando il sentimento popolare e ribaltando le sorti di una guerra che in Europa e in Nord Africa vedeva le forze dell’Asse su posizioni di vantaggio. Iacopini, da autentico appassionato di storia bellica e in particolare di aviazione, arriva ad illustrare nei dettagli i mezzi impegnati nel micidiale attacco aereo, a partire dal prodigioso caccia “Zero” a lungo dominatore dei cieli d’Oriente. Per nulla trascurato il profilo psicologico dei personaggi, che ci porta a considerare con imparzialità l’operare dell’ammiraglio Yamamoto, stratega finissimo e riluttante, che per primo intuì come l’esito del conflitto fosse già segnato dall’inizio. 
Particolarmente interessante la digressione sull’ “etica bushido” che permeava i combattenti giapponesi, innestando nei loro cuori un coraggio e un’abnegazione che divennero successivamente leggendari. Dalle pagine emergono altre figure di protagonisti, spesso sorprendenti e spesso trascurate dalla storiografia che pure ebbero un ruolo determinante nella tragedia. Ma l’autentico messaggio del lavoro del giornalista, seppur non scritto, riguarda l’assurdità della carneficina consumatasi a partire dal 7 dicembre a Pearl Harbor e conclusasi praticamente il 10 agosto di 4 anni dopo a Nagasaki. 
Francesco Bitto

‘1934’ di Alberto Moravia – Recensione Libro

“È possibile vivere nella disperazione e non desiderare la morte?”

Lucio, un trentenne antifascista laureatosi con una tesi su Kleist, si pone proprio questa domanda durante le sue vacanze a Capri, dove ha intenzione di tradurre alcuni racconti dell’autore tedesco e riflettere sulla condizione di eterno dolore a cui l’uomo è destinato. Il suo bizzarro progetto è quello di “stabilizzare la disperazione”, ovvero renderla una banale consuetudine a cui l’uomo dovrà arrendersi, senza cadere nella ‘trappola’ del suicidio.

Le intricate riflessioni di Lucio sono però interrotte, fin dal viaggio in traghetto verso Capri, dalla presenza di una ragazza, che sembra osservarlo con curiosità e sconforto. L’uomo è immediatamente attratto sia dall’aspetto fisico della giovane – si tratta di una minuta ragazza tedesca dai capelli rossi – che dal suo sguardo colmo di malinconia. Lucio tenta invano di avvicinarsi alla donna e parlarle; lei, tuttavia, sembra non volere altro che il silenzio, colmo di giochi di sguardi dal significato incerto. Questo gioco di occhiate, silenzi e turbamenti farà nascere tra i due un amore tanto vivo quanto funesto. Beate (così si chiama la ragazza, come scoprirà il protagonista dopo mille tentativi di avvicinamento) è come Lucio molto appassionata a Kleist, tanto che arriva a chiedere all’uomo, con taciturni ed ambigui stratagemmi, di compiere un folle gesto, imitando l’autore tedesco: un suicidio a due, così come Kleist ed Enrichetta Vogel avevano fatto nel 1811.

Moravia esplora la mente del protagonista che, impaurito ma al tempo stesso affascinato dall’insolita proposta, vorrebbe scoprire qualcosa di più sulla vita della ragazza. E non è il solo, Lucio, a voler conoscere le motivazioni che hanno spinto Beate a questo audace progetto: il lettore, tra uno sguardo sfuggente della ragazza e un pensiero tormentato dell’uomo, non può fare altro che chiedersi, per pagine e pagine, quale mistero si nasconda dietro gli occhi tristi di lei. La narrazione subisce all’improvviso una totale svolta quando, nel momento più inaspettato, appare una gemella di Beate, a lei opposta per quanto riguarda il carattere ma fisicamente identica. Lucio, ritrovando in lei i tratti dell’amata, imparerà a conoscerla e, di conseguenza, a conoscere Beate. Nella seconda parte del romanzo l’identità delle due donne e la loro evidente opposizione sarà continuamente messa in dubbio, fino ad arrivare a un tragico quanto inaspettato epilogo.

Moravia riesce, dietro a riflessioni filosofiche e tormentati pensieri, a catturare continuamente l’attenzione del lettore con piccoli particolari o indizi, che non fanno altro che accrescere il senso di mistero ed inspiegabilità tipico di tutto il romanzo. L’autore è poi molto abile nel fondere più generi letterari, senza per questo risultare dispersivo o pesante: 1934 potrebbe essere considerato un libro storico per i molti richiami al fascismo e al nazismo, fra tutti il titolo, ovvero l’anno della notte dei lunghi coltelli; un libro filosofico per le numerose riflessioni sulla vita e sulla morte, sulla disperazione e sul piacere; un romanzo erotico per quanto riguarda gli incontri, veri o soltanto immaginari, tra Lucio e le due gemelle; e, perché no, anche un thriller per certi versi, data la continua suspense che Moravia riesce a creare.

La vera bellezza del romanzo sta nelle pagine dense di pensieri che, pur ripetendosi, travolgono il lettore. Chi legge infatti non può fare altro che immedesimarsi in Lucio e chiedersi: “io, al posto suo, cosa avrei fatto?”

‘Dodici’ di Zerocalcare: largo agli zombi! – Recensione Libro/Fumetto

È uscito il 17 ottobre Dodici, il nuovo libro di Zerocalcare, il fenomeno romano nel campo dei fumetti. Dopo La profezia dell’armadillo (2011), Un polpo alla gola (2012) e Ogni maledetto lunedì su due (2013), Zerocalcare, protagonista di tutti i suoi libri, si ritrova tra gli zombi. Tocca ai suoi amici Secco e Katja salvarlo. 

Chi ha letto i libri precedenti sa bene che, oltre che di dinosauri, Zerocalcare è un grande appassionato di zombi e finalmente anche lui fa parte di quel mondo che da tempo sognava di poter rappresentare. Anzi, sono loro a entrare nel mondo dell’artista, invadendo Rebibbia che anche qui fa da scenario.
Zerocalcare sembra, quindi, raccontare una storia diversa da quelle a cui ci aveva abituati; abbandona – ma non del tutto – le scene di vita quotidiana e sviluppa un copione ben più vicino a ciò che il lettore ha già assorbito attraverso una tradizione di cinema e letteratura ormai consolidata. Ma Zero resta sempre Zero e lo fa con le sue modalità. Sempre presenti, oltre al già citato Secco, il “giudizioso” Armadillo e l’amico cinghiale. Loro e i personaggi della cultura popolare che diventano la metafora di persone o, molto spesso, della sua coscienza, sono fondamentali per contestualizzare la vicenda. È vero che si parla della sfera dei non vivi, ma lo sfondo è sempre quello: la Rebibbia lenta, del carcere, dell’attesa. In una pagina intensa ce lo spiega in modo breve ma allo stesso tempo esaustivo, come solo chi ci vive sa spiegare.
Ovviamente gli zombi non stanno lì solo per inserire la trama nel campo dell’horror. Romero (eh, sembra proprio che non si possa fare a meno di nominarlo) li aveva usati decenni fa come allegoria dei suoi tempi. Si può dare lo stesso valore a quelli presenti in Dodici. Zerocalcare è consapevole della durezza della vita in questo momento storico che non può non trasparire dalle sue pagine: non può fare a meno di vederci come non morti.
A parte le interpretazioni, tutte e 95 le pagine, con un intreccio non lineare, portano l’inconfondibile ironia espressa in sovrapposizioni di registri linguistici, nell’improbabile attribuzione di parole a personaggi altrettanto improbabili, risultando come sempre spassose, creative ma al contempo semplici ed estremamente vicine alla realtà. 
Per chi è di Roma leggere Zerocalcare è sfogliare un libro sulla propria città, è ritrovare per iscritto espressioni gergali e colloquiali che regolarmente si pronunciano e che sulla pagina stampata fanno sorridere.

Chi non è di Roma, comunque, non disperi: l’accusa che egli stesso lamenta sul suo blog dello scrivere la solita storia generazionale non è affatto una nota negativa, e chi più o meno ha l’età di Michele (questo è il suo vero nome) sente di capire e sentirsi capito. Non è questo forse, il rendere partecipe il lettore, uno dei più grandi successi che un libro possa raggiungere?
Ora basta però. Tocca a voi leggere Dodici e catturare al meglio il talento di Zerocalcare.

Non sarà un libro perfetto ma riderete di cuore, anche soltanto leggendo la copertina.
Martina Sperduti

La Piuma blu, abecedario dei luoghi silenziosi – Recensione libro

Come si fa a vedere il silenzio con gli occhi? Certo non è facile ma forse abbiamo qualche indizio. Conoscere i luoghi con calma, con pazienza con un atteggiamento di benevolenza e pietà è già un buon inizio. Osservare attentamente i particolari, le caratteristiche, la materia, la sua stratificazione, i degradi, i segni del tempo, i varchi d’incertezza. conoscerne la storia, il racconto del tempo trascorso, le vicende delle persone che l’hanno costruito e abitato. Toccare le superfici, rendersi conto delle loro caratteristiche, dell’aspetto esteriore, del colore. Percepire i profumi, gli odori e i sapori. Osservare la flora e la fauna che è presente. Ascoltare il vento, le correnti d’aria. Sentire i suoni, i rumori, interni ed esterni. Fare attenzione ai rapporti fra tutte le cose e utilizzare l’immaginazione e la fantasia che sono gli organi mediante cui vediamo le cose come sono>>. 

Sono queste le suggestive premesse dalle quali prende avvio la sfida di Marco Ermentini nello stilare un vero e proprio “abecedario dei luoghi silenti”. Le intenzioni dell’autore del piccolo libricino intitolato La piuma blu sono quelle di ripercorre i luoghi abitati dal silenzio, da quelli più usuali a quelli più stravaganti ma tutti quanti estremamente connessi con la nostra vita di ogni giorno, ponendoli fin dall’indice in un ordine strettamente alfabetico. Il suo abecedario si inserisce all’interno della collana <> di Mimesis Edizioni e diretta da Duccio Demetrio e Nicoletta Polla – Mattiot.

Il lettore viene accompagnato in un itinerario silente ed affascinante che ha come prima tappa l’abbaino, <>, per proseguire poi con il chiostro, <>. Insieme a luoghi ed elementi consueti, ne ritroviamo anche di più peregrini: dalle ragnatele, <>, afferma l’autore, alla serra, dove <>.

Si continua a camminare, a fermarsi ed ascoltare durante le tappe silenziose e meditative proposte fino a raggiungere il termine con la lettera z di zattera: <>.

Ma in tutto ciò cosa c’entra la piuma blu che compare nel titolo? È un’apposita segnaletica con i quali i “Pionieri del silenzio” indicano la qualità dei luoghi silenziosi scovati nelle nostre metropoli, come fosse una specie di guida Touring, una piccola rivoluzione silenziosa.
Un piccolo vocabolario che ci aiuta a recuperare una dimensione profonda, personale ed intensa del proprio io nel difficile tentativo di spegnere luci e suoni che in ogni istante ci abbagliano e ci ostacolano nella scoperta del nostro porto sepolto, dove, neanche a dirlo, regna il silenzio dell’essere.
Lucia Piemontesi

Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk – Recensione Libro

Tutti gli avvenimenti e le coincidenze che cambiarono la mia vita  ebbero inizio un mese prima, e cioè il 26 aprile 1975, quando Sibel e io notammo una borsa della famosa marca Jenny Colon nella vetrina di un negozio

Sono queste le parole con le quali il premio Nobel Orhan Pamuk inizia a raccontarci nel suo libro intitolato “Il museo dell’innocenza”, l’avvincente quanto tormentata storia d’amore del giovane Kemal Basmaci, che si svolgerà a più riprese in una decina d’anni sullo sfondo di una Istanbul che cambia sia civilmente sia architettonicamente fra gli anni Sessanta e Settanta e che si prepara ad incontrare la modernità. Kemal entrerà nel negozio per esaudire il desiderio della sua fidanzata e promessa sposa Sibel, ma si presenterà a lui la giovanissima, bellissima e affascinante commessa Fusun, che si scoprirà poi essere anche cugina alla lontana dell’uomo.

I due cominciano a frequentarsi come amanti e la loro sarà una storia intrigante, torbida e misteriosa vissuta nella penombra e nell’oscurità delle stanze scelte come luoghi di incontro segreti per i loro appuntamenti amorosi. Dopo il fidanzamento ufficiale di Kemal alla presenza dei componenti di entrambe le famiglie dei promessi sposi, la ragazza decide di sparire senza lasciare traccia di sé.

Il giovane sprofonderà in un dolore lancinante per la perdita della donna amata, rinuncerà a Sibel, stravolgerà la sua vita e scombinerà i suoi progetti umani e lavorativi. Dopo otto anni, Kemal e Fusun si ritroveranno, ma anche in questa occasione la sorte giocherà loro alla fine uno scherzo tragico, che acuirà soltanto il dolore implacabile dell’uomo. Ma ciò che sconvolge il lettore e da una parte lo inquieta, riconoscendo di essere di fronte ad un uomo in preda alla sua stessa ossessione, è la decisione di Kemal di raccogliere tutti gli oggetti appartenuti alla donna misteriosamente dissoltasi per creare un museo dell’innocenza, da qui il titolo del romanzo, che possa renderle onore e impostare un vero e proprio percorso rammemorativo segnato da oggetti, articoli di giornale, fotografie, vestiti, gioielli e quant’altro.

Ecco come ci viene spiegata la sua psicosi: “L’unica cosa che rende questo dolore sopportabile è possedere un oggetto, retaggio di quell’attimo prezioso. gli oggetti che sopravvivono a quei momenti felici conservano i ricordi, i colori, l’odore e l’impressione di quegli attimi con maggiore fedeltà di quanto facciano le persone che ci procurano quella felicità.” L’avvenimento strabiliante risiede però nel fatto che questo museo dell’innocenza esiste davvero ed è stato inaugurato nel 2012 a Istanbul in Çukurcuma Caddesi, Dalgiç Çikmazi, 2, 34425, Beyoğlu, in quella che nel romanzo era indicata come la casa di Fusun. Con grande stupore del visitatore, ogni oggetto e brandello di memoria è esposta con cura e dovizia di particolari nelle varie teche seguendo una linearità cronologica e topografica nella mappatura del ritrovamento.

Nell’ultima sala si trova persino la ricostruzione della camera di Kemal, che Pamuk asserisce di aver davvero visitato e nella quale sostiene di aver ascoltato e preso nota della storia di quest’uomo, che a questo punto sembra essere esistito davvero. La sensazione di spaesamento e sperdimento è notevole: sto vivendo un sogno, l’autore mi sta prendendo in giro o davvero l’amore può raggiungere tali picchi di follia? Ai posteri l’ardua sentenza! 

Lucia Piemontesi

Niccolò Ammaniti: ‘Ti prendo e ti porto via’ – Recensione Libro

In questo noir dal retrogusto dolceamaro Ammaniti dimostra ancora una volta, con quel tocco inconfondibile di delicata spontaneità ed innata freschezza, di saper parlare direttamente al suo lettore, cui sembra sussurrare: <>, ti porto via dal mondo, da te stesso…Abile burattinaio di emozioni, infatti, sempre attento a dosare con equilibrio azione e descrizione in una narrazione che si rivela incalzante, l’autore conduce per mano il lettore in un mondo parallelo, in cui niente è come sembra, fornendo anche spunti di riflessione su tematiche di indiscutibile interesse. E’ un romanzo di formazione, d’amore, ma anche di rabbia e di solitudine-di passioni intense insomma-quello che si snoda attraverso le storie parallele dei due protagonisti, in cui giovinezza ed età adulta si incontrano e si scontrano tra un passato ingombrante, un presente incerto ed un futuro ancora tutto da scrivere, per poi ricongiungersi solo in un finale inaspettato.

La vicenda si svolge ad Ischiano Scalo, un paesino “di quattro case dove il mare c’è ma non si vede”, che diviene muto testimone di segreti inconfessabili…Pietro Moroni è un ragazzino timido ed imbranato, un sognatore inconcludente con una famiglia problematica alle spalle, innamorato di Gloria, sua compagna di classe: Gloria è bella e sicura di sè, è ricca, Gloria è quella smania mai sopita di poter vivere una vita migliore; dall’altra parte, invece, c’è chi- come Graziano Biglia, playboy fallito ed eterno bambino-una vita l’ha già vissuta e buttata via, ma trova finalmente una possibilità di riscatto quando incontra Flora Palmieri, insegnante di Pietro, donna sola e misteriosa. Inesorabilmente le due coppie inseguono la felicità alla scoperta del mondo, facendo spesso a pugni con l’amore, ma inesorabilmente dovranno fare i conti la vita, e…se “col tempo s’impara a vivere lo stesso”, vale la pena vivere ogni singola emozione, magari sognando anche sulle note di “Ti prendo e ti porto via” di Vasco!

Kahlil Gibran: Il Profeta (recensione)

È tempo per Almustafa, l’eletto e l’amato, di fare ritorno nella terra natia. “Dodici anni aveva atteso nella città di Orfalese che ritornasse la sua nave e lo riportasse nella sua isola“. Gli abitanti di Orfalese sono profondamente tristi: Almustafa, il profeta, ha donato molto alle loro vite. Incamminandosi verso il porto “vide da lontano uomini e donne che lasciavano i loro campi e i loro vigneti e si affrettavano verso le porte della città“: con il cuore colmo di tristezza, pieno di pensieri, il profeta non rispose alle suppliche di coloro che volevano non salpasse. “Chinò solo la testa; e quelli che gli erano dappresso videro le sue lacrime cadergli sul petto“.  Ma da un santuario si fa avanti una profetessa, Almitra, la quale chiede ad Almustafa di parlare al popolo e trasmettere la sua verità riguardo agli argomenti chiesti.
Così ogni cittadino interroga il profeta sull’argomento che più tiene a cuore: amore; matrimonio; figli; doni; mangiare e bere; lavoro; gioia e dolore; le case; l’abito; comprare e vendere; colpa e castigo; leggi; libertà; ragione e passione; dolore; conoscenza; l’insegnare; amicizia; il discorrere; tempo; bene e male; preghiera; bellezza; religione; morte. Dopo avere risposto Almustafa prende il largo, con il rammarico di tutti. Ma fa una promessa: “Non dimenticate che sarò di nuovo tra voi“; “Un attimo, un momento di calma nel vento, e un’altra donna mi partorirà“. 
È sorprendente la profondità e al contempo la semplicità con cui l’autore parla dei temi proposti: il registro elevato e il lessico orientaleggiante e lirico non fanno perdere di vista il messaggio, grazie anche alle innumerevoli similitudini per immagini tratte dal mondo della natura e del quotidiano. L’ambientazione antica e il modo di discorrere di Almustafa si fondono con l’attualità degli argomenti: Gibran è consapevole che il contrasto tra antico e moderno possa essere superato solo se il messaggio che filtra è vivo e attuale. Ma per un motivo ben preciso Il Profeta è amato dai giovani: la chiarezza e la genuinità delle risposte ai quesiti più importanti della vita. 
Gibran sa rispondere a molte delle domande che spesso ci poniamo. Che cosa fa l’amore?Come l’amore v’incorona, così vi crocifigge. È egualmente pronto sia a farvi fiorire che a potarvi./ Egualmente ascende fino alla cima ad accarezzare i rami più teneri che tremolano al sole,/ E discenderà fino alle vostre radici e le scuoterà là dove più sono abbarbicate alla terra“. Che cos’è il piacere? “Il piacere è un canto di libertà,/ Ma non è libertà./ È la fioritura dei vostri desideri,/ Ma non è il loro frutto“. I riferimenti dell’autore spaziano da Nietzsche alle filosofie orientali, ed è per questo, forse, che le risposte appaiono soddisfacenti e nuove. Con la poeticità e la liricità del suo stile, che si fonde sapientemente con vive e concrete immagini, Kahlil Gibran è riuscito a fondere mondi diversi per dimostrare che siamo tutti accomunati dalle stesse passioni

Giulia Bitto

George Meegan: La grande camminata (dalla Patagonia all’Alaska)

Il pomeriggio del 18 settembre 1983, sul margine settentrionale dell’insediamento della baia di Prudhoe, in Alaska, percorsi gli ultimi chilometri di tundra melmosa verso il limitare del Mar Glaciale Artico, dove immersi le mani nelle gelide acque d’argento. Erano i passi finali di un viaggio durato sette anni. Ce l’avevo fatta. Fisicamente ed emotivamente spossato, caddi in ginocchio e piansi.
La più lunga marcia ininterrotta di tutti i tempi è raccontata nel libro “La grande camminata” da George Meegan: dalla Patagonia all’Alaska in sette anni (tra il 1977 e il 1983), un’avventura di 30.000 km. Un’impresa epica che Meegan compì con il solo aiuto della gente incontrata lungo il cammino e con il sostegno dei familiari, prima tra tutti la moglie Yoshiko, che con pazienza visse lontana dal marito per quasi tutto il viaggio, insieme ai due figli Ayumi e Geoffrey. Un piccolo carretto contenente l’essenziale, scarponi (italiani), pochi vestiti e un’immensa forza di volontà: questo servì all’autore per portare a termine la traversata delle Americhe. Niente soldi e niente sponsor per il più grande camminatore della storia. “Ho viaggiato senza denaro per essere come le persone intorno a me e ho sempre avuto quel che mi serviva: aiuto, cibo, acqua, ospitalità… Io credo che se vivi in armonia col mondo avrai sempre quello che ti serve.

Il libro, pubblicato nel 2007 da Mursia dopo travagliate vicende editoriali, è una sorta di diario che Meegan stesso scrisse durante il suo viaggio. La parte prima, dedicata al Sud America (del quale attraversò la Terra del fuoco, il Cile, la Patagonia, l’Argentina settentrionale, la Bolivia, il Perù, l’Ecuador, la Colombia, il Darièn Gap e Panama) è forse la più rappresentativa e la più bella: una terra tormentata, lacerata dalle guerre, dalla povertà, ma una terra ospitale, bella ed accogliente. Ovunque George si fermasse, dal contadino al dottore, dalla povera famiglia indigena al proprietario terriero, gli veniva offerto del cibo e un posto in cui dormire. Le persone, su cui tanto il nostro viaggiatore aveva riposto le speranze per sopravvivere, non gli hanno mai negato l’essenziale: tanti sono stati ricordati e ringraziati profondamente. Il Sud America ha lasciato una traccia indelebile nell’animo di Meegan. Grazie ai tanti tipi di persone incontrati, grazie alla loro bontà e disponibilità, l’autore ha imparato ad apprezzare la bellezza dell’umanità. Dice in un’intervista per Panorama: “Ho visto posti bellissimi, ma soprattutto mi sono innamorato della bellezza delle persone. Gente che vive lottando ogni giorno. Vedendoli capisci che una vita senza lotta è una cosa di seconda classe, non è vera vita.”

Nonostante sforzi incredibili (quasi 40 km di camminata giornaliera e rari soggiorni di più notti in uno stesso luogo) e nonostante cominciasse a farsi sentire la mancanza di una famiglia lontana (vista soltanto due volte nel corso del viaggio e per poche settimane) George Meegan attraversò la Costa Rica, il Nicaragua, l’Honduras e il Guatemala fino a giungere nel Nord America. La differenza tra quest’ultimo e il suo “fratello” del Sud fu evidente: il viaggiatore trovò con fatica persone disposte ad accoglierlo, e le chiese, le caserme dei vigili del fuoco o della polizia e altre strutture simili in cui nel sud alloggiava spesso non furono sempre benevole nei suoi confronti. Certamente l’apparato burocratico, le istituzioni e l’alto tasso di povertà dei paesi a sud del Texas non erano dei migliori: svariate furono le difficoltà incontrate. Ma ogni umile cittadino di queste terre offriva ciò che poteva: questo non accadde al nord.

Superata l’America l’autore entrò nel Canada, dal quale avanzò verso l’Oceano Pacifico, per poi risalire in Alaska: il traguardo finale. Accompagnato nell’ultimo tratto dalla famiglia completò una delle più grandi imprese di sempre. Un sogno realizzato grazie alla comprensione dei familiari e a una forza di volontà strabiliante. Il viaggio ancora una volta si è fatto metafora della vita stessa, scoperta del mondo, scoperta di sé, ma soprattutto scoperta di un’umanità varia e meravigliosa. Un viaggio fuori dal comune, basato solo sulle proprie energie e su quelle donate dagli altri. A George Meegan compiere la più grande camminata di sempre è servito a svelare la bellezza del mondo intero e ad apprezzarlo per com’è.

Il viaggio aveva fatto storia. Non solo avevo percorso a piedi l’intero emisfero occidentale (impresa mai realizzata prima), ma ero stato protagonista della più lunga camminata ininterrotta di tutti i tempi. Si trattava, fattore decisivo per me, dell’apice di un sogno realizzato. E allora perché le lacrime, perché quel senso di pesantezza nel cuore? Perché ora ero costretto a dire addio alla mia buona amica, l’inflessibile aguzzina, l’intima compagna onnipresente di oltre novanta mesi di cammino: la strada sotto ai miei piedi.

Giulia Bitto