Il Brasile scende in piazza: ecco perché i brasiliani si stanno ribellando – FOTO e VIDEO

Cristophe Simon/AFP

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“Noi governiamo questo Paese, loro lavorano per noi”, dice un giovane attivista ai microfoni della BBC. Ed è forse questa frase l’essenza dell’enorme protesta che sta scuotendo il Brasile in questi giorni, mettendo a serio rischio lo svolgimento della Confederations Cup. L’ondata di manifestazioni, già ribattezzata come “Primavera Brasiliana”, ha portato sulle strade milioni di cittadini: 300.000 manifestanti hanno affollato la città di Rio, decine e decine di migliaia hanno bloccato Brasilia, São Paulo, Belém, Porto Alegre, Goiana, Belo Horizonte, coinvolgendo oltre 100 città in tutto lo Stato.


Nelson Antoine/AP Photo


Esattamente come accaduto poche settimane fa per le proteste che hanno scosso la Turchia, i media hanno frettolosamente messo alla base delle rivolte motivazioni secondarie, come i rialzi dei prezzi degli autobus e le ingenti spese sostenute dal governo per organizzare le importanti manifestazioni sportive che si terranno nei prossimi due anni. Questi sono motivi marginali, come marginale fu l’annuncio della distruzione del Gezi Park ad Istanbul: gocce che hanno fatto traboccare il vaso della protesta, precedentemente colmato da una serie di motivi sociali, economici e politici ben più profondi.

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Il Brasile, negli ultimi 10 anni, ha conosciuto un’enorme crescita economica (è diventata la sesta economia del mondo) ed una parziale redistribuzione delle ricchezze, avvenuta ad opera dei due governi di sinistra che si sono alternati dal 2003 ad oggi: entrambi appartenenti allo stesso partito (il PT, Partito dos Trabalhadores), Lula e Dilma Rousseff hanno fatto compiere un grande passo avanti al Paese, grazie ad una lotta serrata alla povertà, alle favelas, alla criminalità. In pochi anni, milioni di brasiliani si sono ritrovati a far parte della classe media, ceto precedentemente ristrettissimo e ora rimpolpato da masse di ex poveri, che hanno potuto abbandonare la vita di stenti e criminalità delle favelas per abbracciare quella (pur ancora problematica) delle grandi città.

Silvia Izquierdo/AP Photo


Gli (finora) amatissimi leader, provenivano da una vasta tradizione di sinistra che era stata vitale nella lotta per l’abbattimento della dittatura brasiliana: l’attuale premier Dilma Rousseff fu persino un ex guerrigliera, e negli anni della dittatura fu catturata e torturata in quanto leader di uno dei gruppi che conducevano la resistenza armata. Eppure, oggi, milioni di brasiliani si ribellano e chiedono la testa del loro premier. Qualcosa si è rotto, e la colpa non è di certo attribuibile a 20 centesimi in più sul prezzo dei biglietti dell’autobus. E allora di chi è?

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Innanzitutto, c’è la corruzione: essa è uno dei problemi principali del Paese, ed ha un enorme impatto sullo sviluppo dell’economia brasiliana. La costruzione delle grandi opere necessarie ad ospitare i Mondiali di calcio e le Olimpiadi, processo già di per sé molto costoso, ha generato il sospetto (non del tutto infondato) che una grande quantità di denaro pubblico sia andata persa sotto forma di tangenti, mazzette e appalti truccati. A contribuire alla rabbia, c’è anche il fatto che spesso sono gli stessi governanti a essere accusati di essere corrotti (fra questi c’è la stessa Rousseff), e di mantenere un atteggiamento “morbido” nei confronti del problema a causa di questa collusione.


Paradossalmente, le proteste sono state scatenate anche e soprattutto dalla nuova classe media, risultato delle riforme di Lula e Rousseff: adagiandosi forse sugli allori, il governo del PT non ha saputo rispondere ai bisogni del nuovo ceto brasiliano, che – giustamente – non si è accontentato di uscire dalla zona rossa della povertà. La nuova ossatura del Paese reclama maggiori diritti, una spesa pubblica più responsabile ed efficiente che doni al Paese nuovi ospedali, scuole e strutture pubbliche, e soprattutto una distribuzione più equa della ricchezza. Il Brasile è ancora dominato da un piccolo di gruppo di super ricchi, miliardari che controllano parte dell’economia del Paese mentre decine di milioni di persone muoiono di fame nelle baraccopoli. La nuova classe media ha una coscienza politica ben definita, ed ha dimostrato di non tollerare il compromesso con i governanti, né di avere nei loro confronti una sorta di debito di “gratitudine” per le riforme degli anni passati.

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Le proteste brasiliane segnano una svolta per tutto il Sud America: il subcontinente, affollato da economie in crescita e da popoli sempre più coscienti dei loro diritti, dovrà presto fare i conti con “pretese” che solo pochi anni fa sarebbero state impensabili. L’intera classe politica deve “ripensarsi” (cosa che, per motivi totalmente diversi, devono fare anche quelle europea ed americana) e rimodellarsi sui bisogni di popoli sempre più indipendenti e arrabbiati, non disposti al compromesso, aiutati da una globalizzazione che non è solo economica ma anche dell’informazione, e che permette alle genti di tutto il mondo di influenzarsi a vicenda. 

Cristophe Simon/AFP


Le rivolte di Istanbul sono state condizionate e favorite da quelle della Primavera Araba, le cui immagini sono state diffuse in tutto il mondo dal web; le proteste del Brasile, pur autonome nelle motivazioni, hanno guadagnato forza e slancio anche grazie a quelle fatte da fratelli lontani decine di migliaia di chilometri. La protesta crea la sua simbologia, che è uguale e condivisa in tutto il mondo; la spontaneità, la caratteristica maggiormente temuta dai regimi totalitari secondo Hannah Arendt, è adesso non più oscurabile e favorita da una congiuntura economica e politica disastrosa.

Giovanni Zagarella