L’Ucraina, il gatto e la volpe – Risposta a La Repubblica

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di un nostro collaboratore esterno, Alfredo Crupi, in risposta all’articolo di La Repubblica Online che trovate al seguente link.

La Repubblica online posta oggi un articolo sull’Ucraina scossa dalle manifestazioni dei dimostranti favorevoli a chiudere l’accordo con l’Ue che il loro governo aveva invece ritenuto insoddisfacente. 
Il titolo lancia l’allarme: “Ucraina, polizia sfonda le barricate dei manifestanti europeisti”. 
Il sottotitolo rincara la dose: Attacco di oltre mille agenti nei confronti delle 10 mila persone che occupano piazza Indipendenza a Kiev. L’Unione Europea: “No a violenza contro chi manifesta pacificamente”. Indetta per oggi una manifestazione: prevista la partecipazione di “milioni di cittadini”. Gli Usa: “Disgusto per l’azione delle forze dell’ordine” 
L’orientamento di questo giornale è da sempre manifestamente filo-occidentale e anti-Russo. Ci tiene alla democrazia, il quotidiano di Scalfari.
E dal titolo e dal sottotitolo i nostri bravi giornalisti fanno trapelare tutto il loro sdegno contro questa intollerabile repressione, facendo propri e diffondendo al mondo i duri moniti degli Usa e dell’Ue (che è parte in causa, e dovrebbe tacere, quanto meno per un sospetto conflitto d’interessi…)
Però a leggere l’articolo si possono notare alcune cosette interessanti, che dovrebbero risvegliare la nostra attenzione e il nostro senso critico. A maggior ragione in quanto emergono da un articolo pubblicato su un giornale chiaramente a favore dei dimostranti.
Vediamone alcune, cogliendo fior da fiore:
“Tra i manifestanti ci sono persone armate di mazze e bastoni. In viale Khreshatik dei manifestanti appartenenti a un gruppo paramilitare hanno a loro volta accusato quattro giovani armati di spranghe e bastoni di essere dei “provocatori” e sono venuti alle mani con loro, poi uno dei paramilitari ha afferrato uno dei quattro per il bavero della giacca e lo ha minacciato con una pistola”.
“I poliziotti finora si sono fatti largo più a colpi di scudo che di manganello, ma alcuni scontri si sono verificati quando gli agenti hanno tentato di arrestare dei manifestanti”.
“Nella notte tra lunedì e martedì, la polizia aveva sgomberato i manifestanti che presidiavano barricate nel vicino quartiere governativo, interrompendo il passaggio ai rappresentanti del governo e allo stesso presidente”. 
 “Il presidente ucraino ha denunciato “gli inviti alla rivoluzione”, che “minacciano la sicurezza nazionale”. In un gesto distensivo verso l’opposizione, invece, ha annunciato che avrebbe chiesto il rilascio dei manifestanti arrestati dopo gli scontri con la polizia durante una manifestazione di massa il 1 ° dicembre”.
“Ha anche detto che una delegazione si recherà oggi a Bruxelles per proseguire le trattative per un accordo con l’UE. Dal canto suo, l’Unione Europa ha chiesto al governo ucraino di evitare ogni azione violenta nei confronti dei dimostranti”. 
“nella notte, in una nota diffusa alla stampa, la Ashton ha denunciato con forza l’azione “non necessaria” della polizia”. 
“Anche il segretario di Stato Usa, John Kerry, ha espresso il suo sdegno per l’azione repressiva in corso da parte del governo ucraino. “Gli Stati Uniti sono disgustati per l’uso della forza contro manifestanti pacifici – ha detto Kerry – Siamo con il popolo ucraino, siamo per il diritto a manifestare liberamente e pacificamente. Il governo di Kiev non ha il diritto di mandare contro manifestanti pacifici le forze di polizia in assetto da guerra, non ha il diritto di attentare così alle libertà democratiche e alla sicurezza dei cittadini. La vita umana deve essere rispettata. Il governo ucraino si porta tutta la responsabilità della sicurezza del suo popolo”.  Washington “esprime il suo disgusto per la decisione delle autorità ucraine di rispondere alla manifestazione pacifica in piazza Maidan a Kiev con polizia antisommossa, ruspe e manganelli, piuttosto che con il rispetto per diritti democratici e la dignità umana”, ha detto Kerry. “Questa risposta non è né accettabile né un bene per la democrazia”, ha aggiunto il segretario di Stato”.
Riassumiamo: manifestanti armati di mazze e bastoni, con al proprio interno gruppi paramilitari in divisa armati di pistole, occupano le sedi del municipio, impediscono il passaggio del Presidente e del governo, paralizzano le città e minacciano la rivoluzione.
In risposta il presidente cerca una soluzione negoziata, si adopera per far liberare i fermati, la polizia si fa largo con gli scudi senza nemmeno usare i manganelli. 
Gli USA e l’Europa esprimono disgusto per la violenza poliziesca…
Ma questi gentili signori dov’erano quando la polizia turca massacrava anche con armi chimiche manifestanti davvero pacifici e disarmati? Dove quando i ragazzi palestinesi venivano trucidati in massa con Israele che cannoneggiava le scuole con la bandiera dell’Onu esposta? E cosa farebbe in condizioni analoghe la nostra polizia? Quale violenta attività repressiva ha già più volte messo in campo, cosa è successo alla Diaz e in cento altre simili situazioni? E qualcuno ha visto la “delicatezza” con cui negli Usa sono stati sgombrati gli aderenti a “Occupy Wall Street…”? 
Cosa farebbe la polizia italiana se a fronte di una scelta di politica economica commerciale del nostro governo scendessimo in piazza con caschi, mazze  e bastoni, ostentando la presenza di gruppi in divisa con armi da fuoco, assaltassimo i municipi e le sedi di partiti e sindacati, bloccassimo l’accesso al parlamento e alla sede del governo, impedissimo al presidente di raggiungere le sedi istituzionali?
E queste manifestazioni perché? Perché il governo Ucraino non ci ha visto chiaro nelle proposte di accordo che l’UE ha offerto, le ha ritenute meno convenienti di quelle che proponeva la Russia…Non conosco i termini della questione, ma questi manifestanti lo sanno quale crisi sta attraversando l’Europa? Hanno visto oppure no cosa è successo alla Grecia per avere osservato le indicazioni della Troika? Sono al corrente che in molti paesi europei è sempre più forte la tentazione di uscire quanto meno dall’unione monetaria?
I manifestanti erano circa diecimila, nei giorni scorsi sono arrivati ad essere circa centomila, tanti, ma molti meno di quanti abitualmente ne scendono in piazza in Spagna, Francia, Portogallo, Grecia, Italia, senza riuscire a farsi ascoltare…
E tranquilli, anche in Ucraina c’è la democrazia con libere elezioni, e la Timoschenko è in carcere non perché perseguitata ma perché negli altri paesi del mondo, a differenza dell’Italia, i politici ladri e corrotti che si arricchiscono truffando, li arrestano e li processano. 
Non sto sostenendo che siccome i nostri governanti sono sordi e la nostra (e altrui) polizia talvolta violenta, allora dobbiamo giustificare anche la sordità e la violenza nelle altri parti del mondo, voglio solo riflettere sull’indignazione che mi provoca il disgusto a comando dei governi di Usa e Ue, che utilizzano indebitamente la “piazza” dei dimostranti per imporre gli accordi commerciali a essi favorevoli.
Un’ultima domanda. I gruppi paramilitari non s’improvvisano: chi li arma, chi li protegge, chi li addestra?  
Insomma, i cittadini ucraini devono essere liberi di decidere il proprio destino, ma consiglio loro di diffidare dagli amici interessati, suggerisco la lettura del capolavoro di Collodi nella parte in cui si narra degli Usa e dell’Ue, scusate, del gatto e la volpe…. 

Alfredo Crupi

La mafia uccide solo d’estate – Recensione Film

Se in Italia fare un film che parli dettagliatamente di mafia non è facile, fare un film ironico e leggero che parli di mafia, mettendo d’accordo praticamente tutti è quasi impossibile. Non a caso questo è il paese dove l’opinione pubblica preferisce tapparsi gli occhi fino all’ultimissimo momento disponibile pur di non accettare la realtà…e questo Pif lo sa bene. Onore quindi al coraggio dell’ex iena, che ha deciso di affrontare in chiave verosimilmente autobiografica la tematica delle tematiche riguardante la Sicilia e i suoi abitanti, intraprendendo la via più difficile per portare al cinema l’italiano medio nel periodo natalizio, svincolandosi dal solito format cinepanettonico puro e nobile (vedi Zalone, che a conti fatti si eleva del minimo sindacale rispetto allo schema vanziniano) per produrre una pellicola che nel bene o nel male, quando arriva il momento di alzarsi dalla poltrona ed i titoli di coda cominciano a scorrere, lascia qualcosa su cui riflettere.


“La mafia uccide solo d’estate” è il racconto in prima persona della vita di Arturo, un siciliano onesto come tanti che vive fin dall’infanzia il dramma di una società avvelenata dalla violenza mafiosa, che scandisce come un metronomo la sua esistenza oscillante tra la beata illusione di uno “stato buono” (impersonato da Andreotti, politico che il giovane Arturo idolatra) e quella di una mafia distante, innocua, di cui i siciliani per bene non devono preoccuparsi (emblematica la frase del padre, che nel tentativo di tranquillizzare Arturo afferma che “La mafia uccide solo d’estate, tranquillo siamo in inverno”).

Ma quello di Pif è un racconto originale, agrodolce, in cui le figure dei boss mafiosi sono dipinte tra il buffo e il grottesco e a tratti sono ridicolizzate, cozzando volutamente ed in maniera molto forte con la realtà storica di quegli anni di sangue e stragi. Lo Stato è assente (se non connivente) e gli uomini che decidono di contrastare l’ascesa di Riina sono lasciati soli (la prefettura è vuota, tanto che il protagonista riesce ad arrivare nello studio di Dalla Chiesa) e la popolazione di Palermo tenta fino alla fine di negare l’esistenza del problema mafioso. E l’esistenza stessa del singolo non è che un triste contorno alla vicenda storica e politica degli anni settanta ed ottanta in Sicilia, che risultano a conti fatti i veri protagonisti del film!

La fatica di Pif è quindi annoverabile tra i capolavori del cinema italiano? L’impegno civile basta a far oltrepassare la barriera della sufficienza all’ex iena? Certamente no, e “La mafia uccide solo d’estate” resta quindi solo un buon film pieno zeppo di difetti. Primo tra tutti la recitazione, che essendo messa in mano ad attori non professionisti (Pif) e a bambini per oltre la metà della durata della pellicola, risulta tremendamente stopposa e pesante da digerire (anche perchè una delle poche attrici professioniste, per così dire, è la Capotondi, che non eleva di un gran che l’asticella). Altro grande limite della pellicola è l’eccessivo “carico retorico” di cui è infarcita: se non è facile fare un film di mafia è ancora più difficile fare un film contro la mafia visto che gioco forza si scade, inevitabilmente, nella retorica e nei luoghi comuni.

L’impressione è quella di assistere ad un lavoro scolastico, di quelli fatti dai bambini delle medie che cominciano i temi con frasi del tipo :”la mafia è una cosa molto brutta”. Buona la sceneggiatura, in grado spesso di strappare qualche risata. Ottima la ricostruzione storica e politica della Palermo anni 70/80, senza dubbio la cosa migliore della pellicola. Limitata e a tratti poco credibile la storia in sé, che soffre di una mal riuscita rincorsa ad un verghiano “verosimile”, a tratti forzato ed inutile. Forti i riferimenti ad “Il Divo” di Sorrentino e al “Testimone” dello stesso Pif, da cui eredita la dinamicità nelle riprese e quella forte pulsione verso la narrazione-verità. In definitiva l’esordio di Pif alla regia è positivo ma…non aspettatevi troppo!

Francesco Bitto

La zattera della medusa e la speculazione nell’arte

L’arte può scandalizzare, può scuotere le fondamenta della nostra emotività e può far parlare di se. E’ lecito. Ma se l’opera viene creata con un preciso scopo speculativo, se essa utilizza il dolore e lo scandalo dell’opinione pubblica come un trampolino di lancio verso il successo cosa la differenzia dall’immondizia? Cosa la rende migliore della pornografia? Cosa l’autorizza ad autodefinirsi “arte”?

Nel 1816 la fregata francese “Medusa” naufraga nell’oceano, al largo della costa africana, lasciando in vita solo uno sparuto gruppo di uomini che, dopo giorni terribili di sofferenze passati su una zattera rudimentale in balia delle onde, vengono soccorsi. Il fatto suscita in patria un enorme clamore, sia per la tragedia in se, sia per le ripercussioni sulla politica mercantile della repubblica francese. Géricault coglie al volo l’occasione dipingendo la vicenda su un’enorme tela di 4,91×7,16 metri ed esponendola l’anno successivo al Salon, dove, comprensibilmente, scatena violentissime polemiche politiche e artistiche, contrapponendo i giovani romantici innovatori e i conservatori.
In particolar modo il pubblico è indignato dalla contaminazione neoclassica, intrisa di ordinata atarassia e composta armoniosità, di quello che è un gigantesco dramma collettivo, che accomuna non solo i naufraghi della Medusa ma la Francia intera. Il candore dei corpi immacolati e privi di qualsiasi segno di sofferenza, l’ordine geometrico con cui viene raffigurata la scena (un triangolo equilatero), il bianco della biancheria e delle vesti, stridono eccessivamente con quella che è la realtà del dramma marinaresco, in una rilettura ai limiti dell’offensivo, volutamente distante da qualsiasi verità rappresentativa, volutamente provocatoria.
La dinamicità dei corpi, entusiasti per l’avvistamento della nave giunta in soccorso, fa protendere una vera e propria piramide umana verso il fulcro del quadro, rappresentato dall’orizzonte (la speranza), mentre altri naufraghi ,meno fortunati, restano ai margini del quadro, morti o moribondi, in preda ai flutti del mare, dando l’opportunità all’osservatore di riscoprirsi fatalista osservando un vecchio canuto riflettere sulla caducità della vita. La tela è un’orripilante mistura tra classico e romantico, tra freddo e caldo tra ardore e distacco dalle passioni, in un turbinio di arte fine a se stessa, troppo distante dalla verità , la cui missione è sconvolgere e inorridire. Mai tanta fortuna artistica fu più immeritata. Pornografia nei libri di arte!

Francesco Bitto

La battaglia che cambiò la seconda guerra mondiale: Pearl Harbor – Recensione libro

L’aggettivo “proditorio”, da sempre associato all’attacco giapponese del 7 dicembre 1941 alla flotta statunitense del Pacifico ancorata a Pearl Harbor, basta da solo ad avvertire che la storia dell’apocalittica sconfitta americana è ancora pregna di emozioni e sentimenti e che finora non è stata possibile una universale scrittura obiettiva dell’evento. Un passo deciso in tal senso viene fatto da Roberto Iacopini, giornalista Rai, nel libro “La battaglia che cambiò la seconda guerra mondiale: Pearl Harbor”, appena uscito per Newton Compton. Un resoconto incalzante e avvincente dell’operazione bellica, cui l’autore arriva dopo una illuminante disamina dei sommovimenti geopolitici che sconvolsero l’Asia negli anni Trenta del secolo scorso.

Iacopini illustra con scioltezza narrativa, senza appesantire il lettore con pedanti resoconti, come nacque e come si affermò il “militarismo” nipponico, formula usata acriticamente nei testi di storia e qui resa viva e comprensibile. Senza mai indulgere in revisionismi, Iacopini ci porta a capire come l’attacco fosse non solo prevedibile, ma inevitabile, vista la piega che gli stessi americani avevano dato al negoziato con i rappresentanti del Sol Levante nelle settimane precedenti. Adeguato spazio viene impegnato per illustrare la tesi – mai provata – che vedeva nel presidente Roosevelt il regista occulto dell’azione giapponese, che spinse in guerra gli Stati Uniti, rovesciando il sentimento popolare e ribaltando le sorti di una guerra che in Europa e in Nord Africa vedeva le forze dell’Asse su posizioni di vantaggio. Iacopini, da autentico appassionato di storia bellica e in particolare di aviazione, arriva ad illustrare nei dettagli i mezzi impegnati nel micidiale attacco aereo, a partire dal prodigioso caccia “Zero” a lungo dominatore dei cieli d’Oriente. Per nulla trascurato il profilo psicologico dei personaggi, che ci porta a considerare con imparzialità l’operare dell’ammiraglio Yamamoto, stratega finissimo e riluttante, che per primo intuì come l’esito del conflitto fosse già segnato dall’inizio. 
Particolarmente interessante la digressione sull’ “etica bushido” che permeava i combattenti giapponesi, innestando nei loro cuori un coraggio e un’abnegazione che divennero successivamente leggendari. Dalle pagine emergono altre figure di protagonisti, spesso sorprendenti e spesso trascurate dalla storiografia che pure ebbero un ruolo determinante nella tragedia. Ma l’autentico messaggio del lavoro del giornalista, seppur non scritto, riguarda l’assurdità della carneficina consumatasi a partire dal 7 dicembre a Pearl Harbor e conclusasi praticamente il 10 agosto di 4 anni dopo a Nagasaki. 
Francesco Bitto

Una piccola impresa meridionale – Recensione film

Dopo il successo di Basilicata coast to coast, Rocco Papaleo torna in cabina di regia per un nuovo film ambientato ancora una volta nel sud Italia. Le scene di “Una piccola impresa meridionale” sono state girate interamente in Sardegna, in provincia di Oristano, ma la storia si svolge in un paesino immaginario tra la Basilicata e la Puglia. Una location meravigliosa fa da cornice alla commedia, alla quale il regista, aiutato da inquadrature mozza fiato – quasi da spot turistico – ha reso senz’altro giustizia.  

Una commedia leggera, scorrevole a tratti vivace e divertente. Ti prende fin dall’inizio Papaleo, molto a suo agio nel ruolo che interpreta, un prete che ha perso l’illuminazione e cerca conforto nell’esperienza e nell’austerità della madre; in lei trova in effetti un vero e proprio faro.
L’ex prete si ritrova esiliato nella vecchia proprietà di famiglia, dove svetta il vecchio e ormai spento faro, in cui vorrebbe rimanere in solitudine per ritrovare se stesso. Vorrebbe, appunto. Perché durante il film si sussegue l’arrivo uno dopo l’altro dei vari personaggi che, carichi di storie e di peccati da espiare, sconvolgono il soggiorno di don Costantino: un musicista “cornuto” che si vergogna di esibirsi in pubblico, interpretato da Riccardo Scamarcio, una prostituta in pensione, una bizzarra impresa di ristrutturazioni chiamata a riportare in vita il faro, una madre addolorata a causa degli errori dei suoi figli.

Riccardo Scamarcio e Rocco Papaleo
L’isolamento si trasforma nell’inaspettata e forzata condivisione di spazi e di beni, mentre la storia prende un risvolto che sa di riflessione sulla società moderna. La convivenza fra persone molto diverse fra loro, con alle spalle storie e origini delle più disparate, all’inizio può portare a inevitabili conflitti, ma con il passare del tempo s’impara a conoscere l’altro arricchendo noi stessi e apprezzare comunque una diversa visione di mondo anche se non ci appartiene, ma che non è necessariamente sbagliata. Tutti insieme cercheranno di rifarsi una vita.
La madre anziana e la bambina, il prete e la prostituta, il matrimonio (naufragato) e una coppia gay; temi ricorrenti che Rocco Papaleo, insieme allo sceneggiatore Valter Lupo, intreccia in una trama forse non all’altezza dei migliori, ma certamente piacevole, leggera e mai volgare. 
Papaleo non si nasconde dietro a un dito e manifesta apertamente il suo primo amore. È la musica il collante che tiene insieme il film; qui è una vera dichiarazione d’intenti. Inizia la sua carriera nella musica – prima del suo esordio con Mario Monicelli ne Il mare oscuro nel 1989 – e l’accompagna per tutta la sua vita fino ad oggi. Nei personaggi, Arturo il timido pianista di talento, Magnolia la escort con la passione per il karaoke e Valbona col suo passato di ballerina prende forma il cinema musicale del regista. 
Dopo aver visto “Una piccola impresa meridionale”, all’uscita del cinema, ci si accorge di aver visto un film che non cerca di far ridere o commuovere a tutti i costi, ma ci riesce comunque in qualche modo. Infondo, il restauro del faro può considerarsi come la metafora di una ristrutturazione di noi stessi. Possibile solo col sorriso.
Francesco Bonistalli

Samsung Galaxy NX, il nuovo ibrido Fotocamera-Smartphone con interfaccia Android

Scende in pista il nuovo ibrido di casa Samsung, la Galaxy NX, ardito esperimento di unione di una fotocamera con obiettivi intercambiabili e uno smartphone di fascia alta, se si tratti di una macchina fotografica con uno smartphone “incastonato” dietro l’obiettivo o viceversa dipenderà dall’uso che se ne vuole fare, come anche per altri modelli (Sony QX Lens-camera, Nokia Lumia 1020) non resta che scoprirne le caratteristiche.

  • Sensore CMOS da 20.3 Mpx APS-c (stesso della NX300)
  • Kit con obiettivo 18-55mm F3.5-5.6 
  • Autofocus ibrido avanzato (AIA): 105 punti di messa a fuoco; 247 punti di rilievo del contrasto
  • Schermo Touchscreen capacitivo LCD 921K da 4.8 pollici in Gorilla Glass
  • SVGA mirino elettronico con controllo delle diottrie
  • Formati immagine JPEG, RAW, RAW+JPEG
  • Scatto continuo a 8.6 fps
  • Registrazione video a 1080/30p, 720p60
  • 16GB di memoria, con slot per micro SD
  • Processore Quad-core da 1.6GHz
  • Android 4.2 (Jelly Bean)
  • Batteria da 4360mAh
  • Wi-Fi doppia banda 802.11 a/b/g/n
  • Bluetooth 4.0 (LE) e NFC
  • Dati da cellulare in 4G LTE/3G HSPA+42Mbps
  • GPS e bussola integrati

Il sensore si trova dietro l’attacco per le ottiche di tipo NX, anche se il numero di obiettivi idonei è piuttosto esiguo. Nella parte superiore del corpo si trovano i 4 pulsanti fisici per attivare rispettivamente il flash “on camera”, azionare l’otturatore, registrare video e un tasto multifunzione a cui possono essere assegnati diversi compiti. Tutto questo lascia intendere che la maggior parte dei controlli si troverà sul display.

Il display da 4.8″ sarà utilizzato per la maggior parte delle funzioni

Lo schermo è ampio e contenente tutte le funzioni a portata di dito, una funzione interessante è il sensore che rileva la vicinanza dell’occhio al mirino spegnendo il display touch evitando l’attivazione di funzioni indesiderate.

L’ampia impugnatura della NX, costituisce il solo “appiglio” per manovrare e gestire il dispositivo

Per chi conosce l’interfaccia del Samsung galaxy S4 non noterà alcuna differenza con il sistema della NX però una macchina del genere ha bisogno di selezioni rapide, intuitive e interfacce più orientate ai bisogni dei fotografi.

Da sottolineare che è la prima del suo genere a scattare in formato Raw. 

Perfetta per chi ama scattare e condividere le proprie foto sui social network. Si mira, si scatta, si condivide e il gioco è fatto. Per quanto riguarda la fotografia non è stata introdotta nessuna miglioria significativa.

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V per Vendetta, quando un film diventa un simbolo: foto e video delle maschere di Guy Fawkes

Manifestanti di Anonymous a Nottingham aiutano un senzatetto

V per Vendetta è senza dubbio uno dei film più influenti della storia del cinema. Pochissime sono infatti le opere cinematografiche che hanno così pesantemente condizionato la realtà, ergendosi a veri e propri punti di riferimento ideologici e politici capaci di coagulare quel sentimento antisistema che da un po’ di tempo a questa parte accomuna tutti i movimenti di protesta dell’occidente.

Da Madrid a New York, da Roma a Londra, la dirompente forza delle idee espresse da V ha fatto breccia in coloro che hanno sete di giustizia, di verità e di vendetta, comparendo in tutte le manifestazioni e in tutte le proteste degli ultimi anni. Il capolavoro di McTeigue riecheggia nel nostro presente, ricordandoci l’importanza delle idee e ricordando al potere l’importanza dei simboli.

Riportiamo alcuni dei video e delle foto più interessanti delle maschere di V:

Usa

manifestazione degli indignados a wall street

Turchia

Corteo per la casa a Roma

Nottingham

Londra

Francesco Bitto

Gatsby ed il Grande Sogno Americano – Recensione libro

Ho sempre ritenuto l’America un Paese alla continua ricerca di una propria identità, in balia di una modernità spesso solo apparente e di un materialismo arcaico e frustrante. L’America è l’essenza di un potere cieco, un’accozzaglia di innate contraddizioni: penso al diritto intoccabile alla legittima difesa ed al porto d’armi ed agli Stati in cui vige ancora la pena capitale; penso ai costi esorbitanti di banali cure mediche e alla facilità disarmante con cui spesso si ricorre al chirurgo plastico; penso alla patria del junk food ed alle numerose campagne contro l’obesità infantile, a livelli più che preoccupanti. Se l’America è questo e tanto altro, forse il sogno mai realizzato di una vita migliore, Jay Gatsby, protagonista del grande romanzo di Francis Scott Fitzgerald, ne è l’emblema vivente: siamo negli anni ’20, l’età del jazz, gli “anni ruggenti” per gli Stati Uniti, gli stessi del proibizionismo e dell’emancipazione femminile, il periodo “ideale” per poter realizzare il “Grande Sogno”.

E Jay Gatsby ci prova quando, con tutta la tenacia e la determinazione che da sempre contraddistinguono tale “ideale”, tenta di riconquistare il suo vecchio amore, Daisy Buchanan. Adesso Jay ha accumulato una fortuna, si sente padrone del mondo e può finalmente sposarla, se non fosse per il fatto che quest’ultima, che ha come unico Valore il denaro, ha sposato a sua volta il ricchissimo Tom Buchanan. Daisy ed il marito Tom, il quale ha una relazione con Myrtle Wilson, una donna povera e volgare, vivono a New York; Gatsby compra una villa lussuosissima proprio di fronte alla casa di Daisy, al di là della baia, e dà feste lussuosissime alle quali invita centinaia di persone (che spesso neanche conosce), nella speranza di poterla incontrare e sedurre con la propria ricchezza. Alla fine riesce ad ottenere un incontro con Daisy grazie a suo cugino, Nick Carraway, che è anche vicino di casa di Gatsby e narratore della storia;ed è a questo punto che Jay deve, purtroppo, scontrarsi con la realtà, e la realtà non è e non sarà mai all’altezza del suo sogno, un sogno destinato, nostalgicamente, a fallire: la felicità, infatti, non ha prezzo e non può essere comprata neanche con il potere e la ricchezza. Per cui, se il Grande Sogno Americano è quella speranza di felicità che fallisce, è quell’illusione che svanisce proprio nel momento in cui si tenta di afferrarla, allora Gatsby ne è sicuramente il simbolo, alter ego dello stesso autore e rappresentante designato di illogici e spietati meccanismi umani e sociali.

Fino alla fine egli lotta per un amore che esiste solo in un passato che non tornerà mai più, fino alla fine insegue l’idea dell’amore, un sentimento che probabilmente Daisy neanche conosce. Però, Jay continua a sperare, perché crede tanto fermamente quanto ciecamente nel Sogno Americano: e la sua speranza sa a tratti di inconsapevolezza, di follia –di ingenuità, se vogliamo- ma probabilmente è anche quella speranza che, in fondo, ci fa sentire vivi. Gatsby ha vissuto ed è, infine, morto per il suo sogno: Fitzgerald aveva già profeticamente compreso che il Grande Sogno Americano non si sarebbe mai realizzato, soprattutto in presenza di una discordanza tra ideali politici e realtà sociale. Nonostante tutto, però, sono i desideri e le speranze che tengono l’uomo in vita quindi, se è vero che la morte di Gatsby simboleggia la fine del Grande Sogno, è altrettanto vero che solo un ideale può dare senso a tutto il resto, ad una vita intera. Ecco perché, leggendo questo romanzo, rivedo sempre Gatsby fissare quella “luce verde all’estremità del molo di Daisy”, e ripenso allo stupore provato, a tutta la meraviglia racchiusa in un solo attimo, anche se breve; poco importa, tanto… “domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina…” forse riusciremo ancora a vedere quella luce verde, o forse no –chi può dirlo- ma continueremo comunque “a remare, barche contro corrente…”

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Milano ricorda la poetessa Alda Merini con una mostra fotografica

A quattro anni dalla scomparsa Milano organizza una mostra per ricordare la sua più grande poetessa contemporanea: Alda Merini. La rassegna, che è stata inaugurata proprio ieri, si tiene nello Spazio Oberdan, in Viale Vittorio Veneto 2 e rimarrà aperta fino al 3 novembre. “Cara Alda – Un ricordo di Alda Merini tra immagini e carta stampata”, questo il titolo della mostra, ha come principali organizzatori il suo fotografo personale e grande amico, Giuliano Grittini, e il critico letterario Maurizio Bonassina. L’esposizione ripercorre gli ultimi anni di vita di Alda Merini con un percorso biografico e fotografico molto particolare, infatti i ritratti in bianco e nero e le rielaborazioni cromatiche rendono l’idea di un personaggio molto speciale per la città dei Navigli. 
La vita della poetessa milanese è stata molto travagliata. Esordisce nella poesia a soli quindici anni sotto la guida di Giacinto Spagnoletti e durante la sua maturazione artistica prende contatto con Salvatore Quasimodo e Eugenio Montale. Le sue più importanti opere come La presenza di Orfeo, Paura di Dio, Tu sei Pietro e La Terra Santa sono particolari e affascinanti. Nel 2007 ottiene la laurea Honoris Causa presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina. La sua vita privata però non è altrettanto ricca di soddisfazione: gli anni di internamento nel manicomio “Paolo Pini” di Milano dopo il 1972, la morte del marito nel 1981, gli anni vissuti a Taranto con il nuovo compagno Michele Pierri e il nuovo ricovero all’ospedale psichiatrico tarantino, e per di più le costanti condizioni economiche indigenti segnarono indelebilmente la vita della poetessa dei Navigli. La sua morte, il primo novembre 2009, sopraggiunge dopo un lungo periodo di malattia. Come spesso succede in questi casi, l’importanza di Alda Merini come artista verrà riconosciuta solo dopo la sua scomparsa, ma senza dubbio rimane una delle migliori scrittici italiane del Novecento. 

Lasciando adesso che le vene crescano

Lasciando adesso che le vene crescano                                     
in intrichi di rami melodiosi

inneggianti al destino che trascelse

te fra gli eletti a cingermi di luce… 
In libertà di spazio ogni volume
di tensione repressa si modella
nel fervore del moto e mi dissanguo
di canto ‘vero’ ad esso che trascino
la mia squallida spoglia dentro l’orgia
dell’abbandono. O, senza tregua più,
dannata d’universo, o la perfetta
nudità della vita,
o implacabili ardori riplasmanti
la già morta materia: in te mi accolgo
risospinta dagli echi all’infinito. 

Tangenziale dell’ovest 

Tangenziale dell’ovest,
scendi dai tuoi vertici profondi,
squarta questi ponti di rovina,
allunga il passo e rimuovi
le antiche macerie della Porta,
sicché si tendano gli ampi valloni
e la campagna si schiuda.
Tangenziale dell’ovest,
queste acque amare debbono morire,
non vi veleggia alcuno, né lontano
senti il rimbombo del risanamento,
butta questi ponti di squarcio
dove pittori isolati
muoiono un mutamento;
qui la nuda ringhiera che ti afferra
è una parabola d’oriente
accecata dal masochismo,
qui non pullula alcuna scienza,
a muore tutto putrefatto conciso
con una lama di crimine azzurro
con un bisturi folle
che fa di questi paraggi
la continuazione dell’ovest,
dove germina Villa Fiorita. 


Il manicomio è una grande cassa

Il manicomio è una grande cassa
con atmosfere di suono
e il delirio diventa specie,
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai
luogo maledetto
sopra cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta. 

Emanuele Pinna

Inchiesta Ilva, Nichi Vendola tra i cinquantatré indagati dalla Procura di Taranto

La procura di Taranto ha inviato oggi cinquantatré avvisi di garanzia relativi all’inchiesta sull’Ilva: fra gli indagati anche Nichi Vendola, governatore della Puglia e presidente di Sinistra Ecologia e Libertà, accusato di concussione ai danni del dg di Arpa Puglia, Giorgio Assennato. La procura sta indagando anche su diversi assessori del governo Vendola, sui vertici dell’Ilva ma anche sul sindaco di Taranto, su molti funzionari locali e persino su un sacerdote. 
Gli investigatori sospettano l’esistenza di un vero e proprio apparato politico e amministrativo al servizio dell’Ilva: un losco giro di affari che proteggeva il grande complesso siderurgico dalle influenze esterne e dalla legge. Le accuse rivolte al governatore Vendola riguardano il “mancato rinnovo nell’incarico, in scadenza nel febbraio 2011” a Giorgio Assennato, reo di non aver “ammorbidito” il proprio atteggiamento nei confronti dell’Ilva. Di favoreggiamento nei confronti di Vendola dovranno rispondere l’ex assessore alle politiche giovanili Nicola Fratoianni, l’ex magistrato Lorenzo Nicastro e lo stesso Assennato. 
Secondo gli investigatori, un ruolo di primissimo piano lo avrebbe avuto Girolamo Archinà, ex responsabile dei rapporti istituzionali dell’Ilva, che avrebbe curato la fitta ragnatela di relazioni politiche al fine di permettere al complesso industriale di continuare a produrre ed inquinare. Archinà avrebbe corrotto numerosi politici e giornalisti, ma anche semplici funzionari statali. Numerosi nomi dell’ambiente politico pugliese, come il consigliere PD Donato Pentassuglia, sono accusati di favoreggiamento nei confronti di Archinà.

Giovanni Zagarella