Fat Flag: modelli col corpo dipinto coi colori delle bandiere che mangiano il corrispettivo cibo nazionale

La prima cosa che viene in mente quando si vede la bandiera americana? Libertà, la Statua della Libertà! O forse anche un grosso hamburger, ed è quest’ultimo tipo di associazione ad essere stato utilizzato dal fotografo francese Jonathan Icher nella sua serie fotografica intitolata “Fat Flag“.
La Make-up artist Anastasia Parquet oltre a “pitturare” il corpo dei modelli aiutò Icher a scegliere le cinque nazionalità da rappresentare nel suo progetto. La Francia è rappresentata da un giovane che mangia un croissant, una ragazza Giapponese mangia sushi, ovviamente l’Italia è rappresentata da una ragazza che mangia spaghetti, un uomo dipinto coi colori della bandiera Americana è pronto a ingoiare un hamburger e una ragazza mangia un uovo fritto per rappresentare la tipica colazione all’Inglese.

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New York ha un nuovo sindaco: trionfa l’italoamericano Bill De Blasio

Con oltre il 73% dei consensi, come ampiamente pronosticato alla vigilia, l’italoamericano Bill De Blasio è ufficialmente il nuovo sindaco della città di New York. L’esponente democratico, originario di Sant’Agata dei Goti (BN), ha nettamente sconfitto lo sfidante Lotha, repubblicano, delfino e pupillo di Rudolph Giuliani. Il neo sindaco, che ha pronunciato il discorso della vittoria a Brooklyn, dove vive e lavora, ha dichiarato:”Oggi avete chiesto forte e chiaro una nuova direzione per la nostra città. La gente ha scelto un sentiero progressista e stanotte andiamo verso di esso come una città unita”. In effetti De Blasio e la sua famiglia sono la piena espressione della mutietnicità made in USA.

Lui, di famiglia italoamericana, la moglie, afroamericana, i figli dalla pelle nera e dal nome italiano (Dante e Chiara), tutti uniti sul palco allestito a Park Slope. Il sindaco De Blasio ha poi salutato il paese natale nella lingua madre e inserito nel suo discorso anche frasi in spagnolo, a dimostrazione di come il suo consenso in città sia ampio e diffuso tra tutte le fasce della popolazione: dopo 20 anni i democratici hanno riconquistato la Grande Mela e, a quanto sembra, con una figura che ispira finalmente fiducia. 

Siamo tutti spiati: ecco come fanno!

Ebbene sì amico mio, il mondo sta attraversando quella che molti definiscono la Terza Guerra Mondiale, anche se non è combattuta con le armi (non ancora) ma si combatte su internet. Snowden e Assange hanno insegnato al mondo intero quante cose si possono fare con i computer, e soprattutto quante cose si possono vedere.
Partiamo dal principio: come fanno a spiarmi? I computer collegati a internet hanno un nome, un cognome e un volto, il tutto riassunto nell’indirizzo IP. L’indirizzo IP è univoco per ogni computer o per gruppi di computer collegati in una rete. Noi tutti in casa abbiamo un modem-router e almeno due o tre dispositivi che si collegano ad internet. Per collegare i nostri dispositivi passiamo tramite un Router, che a sua volta passa dentro un DNS per poter accedere alla rete (un DNS non è altro che un “computer” preposto a far dialogare i computer tra di loro, è come un vigile urbano nell’ora di punta). Mettiamo il caso che io sia l’NSA (agenzia di sicurezza americana) e volessi sapere cosa sta facendo Stefano in questo momento su internet: mi basterebbe mettere un mio computer che chiameremo “scanner” tra il router di Stefano e il suo DNS, ed il gioco è fatto, posso sapere tutto, chi guarda su Facebook, cosa cerca su Google e i siti che visita. 
Ovviamente diresti che è impossibile che una persona controlli ogni secondo cosa fanno i milioni di utenti di internet, ma per “fortuna” entra in gioco la tecnologia. L’agenzia ha sviluppato un software capace di leggere i nostri testi e il tono delle nostre conversazioni, di visionare le immagini e i video che mandiamo via mail e se  in una frase scriviamo “voglio mettere una bomba nella metropolitana di New York e uccidere tutti, Allah è grande”, sicuramente arriverà la notifica a qualche funzionario sparso per il mondo (caro funzionario che leggi questo articolo, stavo solo facendo un esempio e ti prego di non venirmi a cercare). 
Starai pensando: “tanto questa cosa riguarda solo l’America. Devo deluderti ancora, amico mio. A quanto pare gli americani, con la scusa che devono vigilare sul mondo intero, hanno chiesto e ottenuto il consenso di infilare nei nostri DNS i loro scanner, controllando tutto il web. Allora dov’è lo scandalo se tutti erano d’accordo? Lo scandalo è che l’America non solo spiava i comuni cittadini, cosa passabile per i nostri governanti, ma addirittura i capi di governo e gli alti funzionari dei principali alleati. Ebbene sì, gli abbiamo dato le chiavi del nostro internet e loro hanno fatto una festa in casa nostra senza il nostro permesso e soprattutto senza invitarci. 
Obama ovviamente nega di aver dato l’autorizzazione a queste operazioni, proprio come fece Reagan con l’operazione Iran-contras, perché stanziare miliardi di dollari per pagare attrezzatura, silenzio e cooperazione internazionale non è il mestiere dell’uomo più potente del mondo. 

Alla fine di quest’articolo, amico lettore, ti starai chiedendo come poter essere anonimo su internet e se usare i DNS di Google, come qualche amico ti ha consigliato, servirà per essere invisibile. La risposta ovviamente è NO ad entrambi i tuoi dubbi, perché l’anonimato in rete è solo un’utopia, come un mondo senza guerre. 
Non voglio preoccuparti, nessuna persona reale spia le tue foto, c’è solo un computer guardone a controllarti.

Economia, allarme rientrato, gli USA stoppano lo shutdown

Dopo più di due settimane Repubblicani e Democratici hanno trovato l’accordo sullo shutdown, riaprendo, di fatto, lo stato federale.
Parchi, musei, la stessa NASA rientreranno da domattina in funzione, salvando il posto di 800000 lavoratori e garantendo quei servizi qualificati come “non essenziali”. Ma non è questa la notizia più importante della giornata: come comunicato poco fa da Reid e McConnell, capigruppo dei due schieramenti, l’accordo tra “elefante” e “asinello” riguarda anche e sopratutto l’innalzamento del tetto massimo del debito USA, il cui superamento, che sarebbe avvenuto domani, avrebbe cancellato dei servizi (questa volta sì) essenziali.
Immediata la risposta dei mercati d’oltreoceano, in forte rialzo in attesa delle reazioni europee, è salvo il ranking tripla A degli States, posto sotto osservazione nei giorni scorsi.

Roberto Saglimbeni

I senza tetto di Hollywood, l’altra faccia del sogno americano

The american dream”, quante volte abbiamo sentito parlare di questo fantomatico “sogno americano”, di persone che partono da ogni angolo del mondo per raggiungere la patria dei sogni, gli Stati Uniti D’America, con la speranza di trovare finalmente la felicità o un tenore di vita migliore. Ma se per alcuni il sogno americano si è avverato, per altri invece è diventato un incubo

Michael Pharaoh ci mostra l’altra faccia di un’ America fin troppo idealizzata, fotografando i volti dei senza tetto di Hollywood. Un progetto insolito ma davvero sentito come lui stesso ha dichiarato: “E’ stato interessante ascoltare tutte le loro storie e i racconti di come sono finiti a vivere per strada. Questo progetto è stato unico, ma triste e ancor di più umiliante”. 

Tutto quello che ha immortalato si svolge a pochi passi dalla mondanità e dalla ricchezza sfrenata, a pochi passi da Red carpet, studi cinematografici e vestiti da milioni di dollari. Con questo reportage Michael Pharaoh ha voluto evidenziare il contrasto tra i volti luminosi dei divi di Hollywood con quelli scuri e anneriti dalla polvere e dalla tristezza, dei senzatetto di Los Angeles. Il fotografo Neozelandese ha voluto immortalare soprattutto gli occhi contornati da rughe e cicatrici, con dei primi piani che rivelano tutto il vero stato d’animo dei suoi soggetti.

Consuelo Renzetti

George Meegan: La grande camminata (dalla Patagonia all’Alaska)

Il pomeriggio del 18 settembre 1983, sul margine settentrionale dell’insediamento della baia di Prudhoe, in Alaska, percorsi gli ultimi chilometri di tundra melmosa verso il limitare del Mar Glaciale Artico, dove immersi le mani nelle gelide acque d’argento. Erano i passi finali di un viaggio durato sette anni. Ce l’avevo fatta. Fisicamente ed emotivamente spossato, caddi in ginocchio e piansi.
La più lunga marcia ininterrotta di tutti i tempi è raccontata nel libro “La grande camminata” da George Meegan: dalla Patagonia all’Alaska in sette anni (tra il 1977 e il 1983), un’avventura di 30.000 km. Un’impresa epica che Meegan compì con il solo aiuto della gente incontrata lungo il cammino e con il sostegno dei familiari, prima tra tutti la moglie Yoshiko, che con pazienza visse lontana dal marito per quasi tutto il viaggio, insieme ai due figli Ayumi e Geoffrey. Un piccolo carretto contenente l’essenziale, scarponi (italiani), pochi vestiti e un’immensa forza di volontà: questo servì all’autore per portare a termine la traversata delle Americhe. Niente soldi e niente sponsor per il più grande camminatore della storia. “Ho viaggiato senza denaro per essere come le persone intorno a me e ho sempre avuto quel che mi serviva: aiuto, cibo, acqua, ospitalità… Io credo che se vivi in armonia col mondo avrai sempre quello che ti serve.

Il libro, pubblicato nel 2007 da Mursia dopo travagliate vicende editoriali, è una sorta di diario che Meegan stesso scrisse durante il suo viaggio. La parte prima, dedicata al Sud America (del quale attraversò la Terra del fuoco, il Cile, la Patagonia, l’Argentina settentrionale, la Bolivia, il Perù, l’Ecuador, la Colombia, il Darièn Gap e Panama) è forse la più rappresentativa e la più bella: una terra tormentata, lacerata dalle guerre, dalla povertà, ma una terra ospitale, bella ed accogliente. Ovunque George si fermasse, dal contadino al dottore, dalla povera famiglia indigena al proprietario terriero, gli veniva offerto del cibo e un posto in cui dormire. Le persone, su cui tanto il nostro viaggiatore aveva riposto le speranze per sopravvivere, non gli hanno mai negato l’essenziale: tanti sono stati ricordati e ringraziati profondamente. Il Sud America ha lasciato una traccia indelebile nell’animo di Meegan. Grazie ai tanti tipi di persone incontrati, grazie alla loro bontà e disponibilità, l’autore ha imparato ad apprezzare la bellezza dell’umanità. Dice in un’intervista per Panorama: “Ho visto posti bellissimi, ma soprattutto mi sono innamorato della bellezza delle persone. Gente che vive lottando ogni giorno. Vedendoli capisci che una vita senza lotta è una cosa di seconda classe, non è vera vita.”

Nonostante sforzi incredibili (quasi 40 km di camminata giornaliera e rari soggiorni di più notti in uno stesso luogo) e nonostante cominciasse a farsi sentire la mancanza di una famiglia lontana (vista soltanto due volte nel corso del viaggio e per poche settimane) George Meegan attraversò la Costa Rica, il Nicaragua, l’Honduras e il Guatemala fino a giungere nel Nord America. La differenza tra quest’ultimo e il suo “fratello” del Sud fu evidente: il viaggiatore trovò con fatica persone disposte ad accoglierlo, e le chiese, le caserme dei vigili del fuoco o della polizia e altre strutture simili in cui nel sud alloggiava spesso non furono sempre benevole nei suoi confronti. Certamente l’apparato burocratico, le istituzioni e l’alto tasso di povertà dei paesi a sud del Texas non erano dei migliori: svariate furono le difficoltà incontrate. Ma ogni umile cittadino di queste terre offriva ciò che poteva: questo non accadde al nord.

Superata l’America l’autore entrò nel Canada, dal quale avanzò verso l’Oceano Pacifico, per poi risalire in Alaska: il traguardo finale. Accompagnato nell’ultimo tratto dalla famiglia completò una delle più grandi imprese di sempre. Un sogno realizzato grazie alla comprensione dei familiari e a una forza di volontà strabiliante. Il viaggio ancora una volta si è fatto metafora della vita stessa, scoperta del mondo, scoperta di sé, ma soprattutto scoperta di un’umanità varia e meravigliosa. Un viaggio fuori dal comune, basato solo sulle proprie energie e su quelle donate dagli altri. A George Meegan compiere la più grande camminata di sempre è servito a svelare la bellezza del mondo intero e ad apprezzarlo per com’è.

Il viaggio aveva fatto storia. Non solo avevo percorso a piedi l’intero emisfero occidentale (impresa mai realizzata prima), ma ero stato protagonista della più lunga camminata ininterrotta di tutti i tempi. Si trattava, fattore decisivo per me, dell’apice di un sogno realizzato. E allora perché le lacrime, perché quel senso di pesantezza nel cuore? Perché ora ero costretto a dire addio alla mia buona amica, l’inflessibile aguzzina, l’intima compagna onnipresente di oltre novanta mesi di cammino: la strada sotto ai miei piedi.

Giulia Bitto

Il grande Gatsby: una rilettura post-moderna

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Bisogna ammetterlo: Il grande Gatsby di Baz Luhrmann riesce a superare la sfida – non facile – che ben tre trasposizioni cinematografiche precedenti gli presentavano.
Ci riesce soprattutto grazie all’originalità dell’ambientazione, un’interessante e magistralmente dosata combinazione tra i Roaring Twenties americani che ispirarono il romanzo di Scott Fitzgerald e la contemporaneità più sfrenata e colorata. Il risultato è un’esuberante miscela post-moderna, che riesce ad affascinare e a stupire, quasi distraendo dalla narrazione.
La trama, abbastanza fedele all’originale, racconta attraverso gli occhi del giovane Nick Carraway (Tobey Maguire) la vicenda di Jay Gatsby (interpretato da uno straordinario Leonardo DiCaprio), un uomo il cui passato è avvolto da leggende e racconti inverosimili che lui stesso alimenta con le sue storie e organizzando magnifiche e sfavillanti feste nella sua lussuosa dimora a West Egg, Long Island.
Gatsby sembra avere infiniti volti: le sue testimonianze lo ritraggono come un uomo dai mille talenti, un eroe di guerra, un brillante intellettuale.
Eppure Nick, stabilitosi di recente nel cottage confinante con il castello del suo misterioso nuovo amico, intuisce che dietro tutto questo mito si cela un dolore profondo e inconfessabile.
Ben presto Gatsby si confida con Carraway, rivelandogli il vero motivo che lo ha spinto a stabilirsi a West Egg: dall’altra parte della baia abita Daisy (Carey Mulligan), la donna che ha amato cinque anni prima, adesso sposata con l’odioso Tom Buchanan (Joel Edgerton). Egli è intenzionato a riconquistarne l’amore, facendosi aiutare dal cugino di Daisy, appunto Nick Carraway.
Personaggio grandioso e magnanimo, davanti allo sguardo stupefatto di Carraway, Gatsby pagherà cara la sua “eccezionale propensione alla speranza” e il suo tentativo di ripercorrere il proprio imperscrutabile passato.

In un’atmosfera a volte sovraccarica e quasi surreale (per cui molti osservatori hanno notato delle affinità con Moulin Rouge!, altro film di Luhrmann), la narrazione si snoda abbastanza efficacemente, minimizzando però il senso amaro di disillusione e di fine di un’epoca che pervade le pagine dello scrittore americano. Tra luci, coriandoli, strass, fuochi d’artificio e folle in delirio, di certo è un film che si auto-compiace e che si fa ammirare, e riesce a ricreare con grande spettacolarità lo “scintillante miraggio” della New York degli anni ’20.
Una menzione particolare merita la colonna sonora, che assembla intelligentemente brani del jazz tradizionale – tra cui spicca la splendida Rhapsody in Blue di G. Gershwin – e pezzi più recenti del R&B contemporaneo, con partecipazioni importanti come il rapper Jay-Z, Beyoncé e will.i.am.

Ma ovviamente, sopra tutto e tutti si erge il personaggio di Gatsby.
Fascino, determinazione, impulsività, tenerezza, ingenuità: DiCaprio si dimostra ancora una volta abilissimo a dosare passione e compostezza, in uno stile di recitazione impeccabile e genuino.
Alla fine, a fronte della meschinità e dell’insufficienza degli altri personaggi, la grandezza e la solitudine del protagonista fanno di Gatsby un eroe titanico, e rendono la sua tragedia ancor più viva e attuale.

Giorgio Todesco

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