I massacri dell’Italia post-unitaria

Se si pensa all’unità di Italia le prime cose che vengono in mente sono i grandi nomi degli artefici di questa impresa, come Garibaldi, Mazzini, Cavour; viene in mente un bel quadro idilliaco in cui sono raffigurati mille valorosi combattenti che unificano la penisola e ci rendono finalmente tutti italiani. Ma come sempre, in queste situazioni, non si pensa mai né al prima né al dopo. Cosa è successo all’indomani dell’unità? Affrontare in questa sede un argomento così vasto e complesso sarebbe da folli; mi limiterò a dare qualche numero. Conoscere il numero esatto delle vittime è impossibile: ma esse si possono facilmente desumere dalle forze impiegate per sopprimere i vari movimenti che attraversarono la penisola.
Vittime? Quali vittime, vi domanderete. Come se attraversare l’Italia vestiti di rosso bastasse per risolvere i problemi di un territorio così vasto mai stato unito prima. Qualche dato: nel 1861 gli italofoni non superavano il 2% della popolazione; l’arretratezza economica del paese era imbarazzante; l’agricoltura era il settore dominante, mentre le fabbriche quasi non esistevano; nel Meridione il tasso di analfabetismo toccava il 90% della popolazione; il divario tra Nord e Sud era, come tutti sappiamo, nettissimo.
Tutti questi problemi portarono a disordini e squilibri di vario genere: nel Meridione, a seguito dell’inasprimento del carico fiscale e dell’introduzione della leva obbligatoria, sorse il fenomeno del brigantaggio. In un solo anno (1860-61) nell’ex Regno delle Due Sicilie ci furono 8964 fucilati, 10.000 feriti, 6112 prigionieri. I briganti, appoggiati dal clero e dalla comunità, diedero il via a una vera e propria guerra civile: dinnanzi alla minaccia di una restaurazione borbonica il governo reagì duramente. Nel 1865, non sapendo come gestire la situazione in modo pacifico, il primo ministro Urbano Rattazzi inviò con poteri assoluti il generale Alfonso La Marmora a reprimere il movimento, impiegando 120.000 soldati. L’anno dopo, scoppiata un’insurrezione a Palermo, furono impiegati altri 40.000 soldati e la marina bombardò la città siciliana. 
Tralasciando la Terza guerra di indipendenza (in qualche modo si doveva completare l’unificazione, no?), lasciando un attimo da parte le gloriose avventure coloniali (Dogali e Adua, presso la quale morirono 16.000 italiani, vi ricordano qualcosa?) passiamo ai Fasci siciliani. Ancora una volta nell’isola, a seguito dell’inasprirsi delle condizioni di vita, nacque un’associazione di lavoratori che presto si tinse di socialismo. Il movimento crebbe a dismisura: ma Giolitti decise di non spargere sangue e seguire una via diplomatica. Subito il Parlamento si scandalizzò e decise di rimpiazzare Giolitti con Crispi (rimandiamo i giudizi su quest’ultimo). L’agrigentino, come era solito fare, proclamò lo stato di assedio in Sicilia e inviò 30.000 soldati a sedare le manifestazioni. 
Finiamo il nostro excursus, che di per sé è un climax ascendente di morti e stupidità, con la ciliegina sulla torta: la protesta dello stomaco. Nel 1898, a quasi quaranta anni dalla agognata unità, il pane subì un clamoroso rincaro e il popolo scese in piazza per protestare. Il governo affibbiò la colpa ai soliti socialisti, arrestando esponenti del partito qua e là, senza capire che la protesta era del tutto spontanea. A Milano, Di Rudinì, subentrato nuovamente a Crispi (che fantasia questi presidenti), diede l’ok al generale Bava Beccaris per fare fuoco con i cannoni sui manifestanti. Non si seppe mai il numero esatto delle vittime, ma sicuramente si supera il centinaio. 
Certamente un errore, un’azione da non rifare mai più. E invece Umberto I, con somma bontà d’animo e amore per i sudditi, definì “una brillante azione militare” quella di Beccaris, il quale fu insignito di un’alta onorificenza dal suo re. Non credo ci sia più bisogno di commenti.

Giulia Bitto