Marilyn Manson: icona o ciarlatano?

Marilyn Manson è a mio dire uno degli artisti più sopravalutati e, al contempo, sottovalutati del panorama musicale dell’ultimo ventennio.
Sopravalutato dall’enorme schiera di fan, perlopiù ragazzini acritici e vuotamente ribelli che pendono dalle labbra truccate di nero del cantate e sottovalutato dai sedicenti puristi del metallo cresciuti a pane e Slayers, per i quali il Reverendo Manson è solo un un “poser” ovvero un musicista che sfrutta il look tipico di una determinata sottocultura senza comprenderne la vera essenza.
Come spesso accade, la verità risiede nel mezzo.
Manson, all’epoca Brian Hugh Warner, classe 1969, ha senza dubbio puntato molto sulla sua immagine “maledetta” furbescamente costruita attingendo da artisti come Alice Cooper, Black Sabbath e KISS, ma snobbare a priori la sua produzione musicale sarebbe insensato, alla stregua di considerare stupida una donna solo perché di bell’aspetto.
Marilyn Manson And The Spooky Kids (nome originale della band, in seguito indicata solo col nome del leader) dopo anni di gavetta passati a suonare in giro per la Florida, pubblicano nel 1994 “Portait of an american family” prodotto da Trent Reznor, storica figura dei Nine Inch Nail. Un album senza dubbio primitivo ma interessante, arricchito da invettive sull’ipocrisia e la falsità della società “bianca” americana la cosiddetta “white trash” (“Cake and Sodomy”) , da feroci critiche al fanatismo religioso (“Get Your Gunn”) e da angoscianti spaccati sul dramma della tossicodipendenza (“Dope Hat”). Da segnalare è anche “My Monkey” ispirata a “Mechanical Man” poesia scritta dal noto omicida Charles Manson, focolaio che darà inizio ad una lunga serie di polemiche che accompagneranno la band per molti anni a venire.
Ad un anno di distanza, viene pubblicato “Smells Like Children” un album delirante che riflette lo stato mentale della band, in quegli anni offuscato da ogni tipo di droga. E’ un disco contenente frammenti strumentali, remix, cover (fra le quali la sublime “Sweet Dreams” originariamente degli Eurythmics resa qui cupa e claustrofobica in conformità col testo decisamente inquietante) e spoken word. Mentre l’album diviene doppio disco di platino la band viene accusata di essere promotrice di violenza, stupro, droga e satanismo a causa dei testi controversi e di performance dal vivo non esattamente ortodosse collezionando un buon numero di denuncie.
Fra il 1996 e il 2000 Manson pubblica tre concept album strettamente legati fra loro: “Antichrist Superstar”, “Mechanical Animals” e “Holy Wood”. Questo ciclo, che a parere di chi scrive è quanto di più valido abbia prodotto la band, risente delle influenze più disparate: dalla filosofia di Friedrich Nitetzsche in “Antichrist Superstar” che narra della genesi di una sorta di Superuomo che si trova a diventare un angelo dopo aver passata la sua vita ad essere un verme (“Kinderfeld”), alle atmosfere decadenti e post-apocalittiche stile “Diamond Dogs” di David Bowie in “Mechanical Animals” in cui un mondo freddo e svuotato da ogni sentimento positivo e valore (“Great Big White World”) viene descritto dalla voce disillusa dell’alieno Omega, alter-ego di Manson, per poi passare al sound abrasivo di “Holy Wood” che descrive come un’icona pubblica – prendendo a riferimento personaggi come Gesù Cristo (“Cruci-fiction in space”), Kennedy (“GodeatGod”, “President Dead”) e John Lennon ( “Lamb Of God”) – può venire distrutta dalle pressioni della società, sempre più malata ed opportunista. Costante in questi tre album rimane l’invettiva sociale che ha caratterizzato la produzione di Manson fino a questo momento, scagliandosi contro un’America che ha sempre celebrato la violenza per poi, nel caso di tragedie (ad esempio la strage alla Columbine, la quale ha ispirato “The Nobodies” contenuta in “Holy Wood”) addossare la colpa a terzi, fra i quali spesso appare lo stesso Manson.

Ciò per cui è bene ricordare Marilyn Manson, a parer mio, è la sua produzione fino a “Holy Wood”.
Segue nel 2003 “The Golden Age Of Grotesque” che risente fortemente dell’assenza di Twiggy Ramirez, lo storico bassista; un album piatto e dal sound pacchiano, concettualmente ispirato al clima della Berlino anni 30’: non c’è più spazio per la riflessione critica e lo stesso Manson in “This is the news shit” dice che “tutto è già stato detto” (“everything has been said before”).
Il punto più basso è raggiunto da “Eat me, drink me” del 2007, un disco che sembra la trasposizione musicale del diario di un adolescente piuttosto macabro alle prese con la prima sbandata (è difatti dedicato a Evan Rachel Wood, all’epoca era la compagna del cantante).
Il tragico romanticismo di “Coma White” e “Tourniquet” rispettivamente contenute in “Mechanical Animals” e “Antichrist Superstar” lascia spazio a canzonette come “Heart Shaped Glasses” e “You, me and the Devil makes 3” caratterizzate da sound blando e da immagini prive di mordente.
Senza dubbio più godibili sono gli ultimi due album “The high end of low” (2009) e “Born Villain” (2012), che vedono il ritorno di Twiggy Ramirez in veste di chitarrista. Niente di innovativo ahimè, ma pezzi come “Four rousted horses” (resa vagamente country dalla chitarra acustica) e “Breaking the same old ground” (che ricorda la canzone chiusura di “Holy wood”, “Count to six and die”) valgono la pena di essere ascoltati.
Nel frattempo il Reverendo passa la vita cimentandosi in occupazioni altamente produttive quali pubblicare selfies sui social network, andare per feste con ragazze sempre più giovani e collaborare con Avril Lavigne in duetti di valore artistico assai discutibile.
Riallacciandomi alla premessa, Marilyn Manson e la sua esperienza musicale sono stati sicuramente fondamentali nel panorama industrial degli anni ’90, ma per lui è da tempo arrivato il momento di tirarsi indietro, onde evitare di esasperare ulteriormente i suoi fans dotati di spirito critico e di attirare su di sé il disprezzo dei metallari più intransigenti ed ortodossi.
Da fan decennale di Manson mi inalbero se quest’ultimo viene bollato aprioristicamente come un buffone, ma dinnanzi a chi lo incolpa di “essere diventato un buffone” chino la testa e purtroppo mi vedo costretta a convenire col mio interlocutore.