Morosini, si ipotizza l’omicidio colposo: tre i medici indagati

Un anno e mezzo fa la sua tragica morte sconvolse il mondo del calcio: Piermario Morosini, calciatore del Livorno, si accasciò in campo al 31′ minuto della trasferta di Pescara per non rialzarsi mai più. La sua tragica fine, che aprì una dura polemica sulla sicurezza e la prevenzione in ambito sportivo, ha lasciato un duro segno sul volto del nostro football. Piermario era un ragazzo semplice, umile, con una storia familiare drammatica e che, solo col suo talento e la sua voglia di fare, era riuscito a costruirsi un futuro, arrivando a giocare in Nazionale U-21 con gente come Balotelli, Ranocchia, Sirigu, Marchisio e Abate. Tutto fino a quel tragico pomeriggio di Aprile.
E oggi, dopo più di un anno e mezzo, il pm Valentina D’Agostino ha presentato la richiesta di rinvio a giudizio per tre dei medici che tentarono di soccorrere lo sfortunato giocatore. Si tratta di Manlio Porcellini, medico sociale del Livorno, di Ernesto Sabatini, che ricopre lo stesso ruolo nel Pescara, e di Vito Molfese, medico del 118 dello stadio nel giorno della tragedia. Il pm, in vista dell’udienza davanti al gup di giorno 20 Febbraio 2014, ha contestato a tutti e tre il mancato utilizzo del defibrillatore, che probabilmente avrebbe concesso all’atleta qualche possibilità in più di sopravvivenza. Ma, comunque vada a finire questa storia, al calcio resta da un lato un grande vuoto e dall’altro un grande interrogativo: possiamo lasciar morire dei ragazzi su un campo di pallone?

Uccise la moglie nel 1990, salvato dalla prescrizione

Una sentenza che farà discutere quella del tribunale di Pescara, che ha “salvato” dal carcere Giulio Morrone. L’uomo, marito di Teresa Bottega, scomparsa nel 1990, era stato formalmente incriminato dopo che la sua confessione a un parroco, nella quale testimoniava di aver ucciso la moglie, era stata rivelata dal curato a un terzo che poi l’avrebbe inoltrata agli investigatori, portando così alla riapertura di un vero e proprio “cold case”. Oggi, tuttavia, la sentenza lo libera dalla giusta punizione detentiva in quanto il giudice, non riconoscendo l’aggravante dei futili motivi, ha fatto sì che il reato, incredibile a udirsi, cadesse in prescrizione, nonostante il PM avesse chiesto per Morrone 16 anni.
La confessione di Morrone, resa ai PM, è di una crudezza sconcertante:”Avevamo litigato per l’ennesima volta, le ho stretto le mani intorno al collo e ha smesso di respirare. L’ho lasciata lì, ho accompagnato il bambino a scuola e poi sono tornato a riprenderla. Ho messo il corpo in un cesto, l’ho caricato nel bagagliaio, ho guidato a lungo e a un certo punto mi sono fermato a Bombeno, non so perchè, non ricordo molto ma il cartello sì. Poi ho buttato il cesto in un canale o in un torrente e me ne sono andato”. Tutto questo, tuttavia, non è bastato per evitare l’ennesima barbarie della giustizia nostrana, che è riuscita ad evitare il carcere a un uomo che in modo efferato ha posto fine alla vita della moglie, fingendo poi che la stessa fosse fuggita all’estero o chissà dove con un altro uomo. Le indagini, ora, si concentrano sulla ricerca del corpo: purtroppo il colpevole resterà sostanzialmente impunito.

I cancri dell’Italia – La giustizia (Parte 3)

Parte 2: I mezzi di informazione

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La giustizia è l’istituzione nevralgica di ogni Stato di diritto. La giustizia, che è messa in atto sempre come volontà del popolo, è potere legittimo di tutelare i diritti di tutti, è quell’istituzione che protegge i diritti dei cittadini e risolve i conflitti sociali. Da ciò si comprende come la sua inefficienza minacci concretamente la democrazia. Questo è ciò che succede attualmente in Italia, dove la giustizia, analizzando i dati, è fondamentalmente in crisi e rappresenta un cancro tutto nostrano.
In Italia la giustizia è impantanata in una miriade di processi: si contano, infatti, 9 milioni ogni anno tra cause penali e civili. A ciò è da aggiungere l’insopportabile lentezza nei procedimenti: ad esempio, la durata media di un processo civile ordinario di primo grado varia dai 500 giorni di Torino fino ai 1500 di Messina. La lentezza, come è chiaro, non è solamente penalizzante per le parti in causa, che devono attendere per avere giustizia con il rischio che il processo pendente finisca in prescrizione, ma comporta un vero e proprio salasso per le casse dello Stato che nel 2011 ha sborsato 84 milioni di euro per gli indennizzi delle cause lumaca. Sempre a proposito di indennizzi, per quanto riguarda gli errori giudiziari in quasi 2.500 procedimenti, si è arrivati a un costo totale 46 milioni di euro.

Dal punto di vista economico, oltre che la spesa per le casse dello Stato, l’inefficienza e la lentezza dei processi civili rendono il Paese poco appetibile per gli investitori stranieri e rischiano di far fuggire anche quelli italiani. Secondo la Banca d’Italia, infatti, se la nostra giustizia fosse celere ed efficiente guadagneremmo 1 punto percentuale di Pil all’anno. A proposito di ciò si può citare il rapporto ‘Doing Business 2012′ della Banca Mondiale, in cui l’Italia continua a perdere posizioni. E’ fanalino di coda in Ue e non va meglio il confronto con il resto del pianeta: 158° su 183 paesi. Meglio di noi Gambia, Mongolia e Vietnam, impari il confronto con il Vecchio Continente.

Dall’analisi delle inefficienze del nostro sistema giudiziario, si possono offrire diverse soluzioni che il Parlamento italiano ha voluto continuamente rinviare. Questi rinvii non riguardano gli ultimi decenni perché è sufficiente dire che il nostro codice penale viene chiamato “codice Rocco”, in quanto approvato nel 1930 dal Ministro della Giustizia fascista Alfredo Rocco. Nell’analisi e nell’approvazione di riforme strutturali, bisognerebbe tenere conto di istituzioni mediatrici, grazie alle quali le controversie possono essere risolte senza andare a processo, sarebbe necessario rinforzare la digitalizzazione a scapito della burocrazia, e infine sarebbe utile infondere certezza della pena e incentivare celerità nei provvedimenti.
Strettamente collegato al grande problema del sistema giudiziario vi è il dramma, più che mai attuale, delle carceri italiane. Come è possibile che una democrazia avanzata come l’Italia venga più volte condannata dalla Corte di Strasburgo per trattamento inumano e degradante inflitto ai propri cittadini?
Il problema principale è la dotazione delle strutture carcerarie: dal 2008, infatti, si è superato il limite di allarme che è di 130 presenze ogni 100 posti. Quasi il 40% dei detenuti soggiornano inoltre nelle carceri in attesa di giudizio, senza dunque sapere se siano o meno colpevoli. Nel nostro paese, dal 2000 ad oggi sono morti 1.800 detenuti, di cui ben 650 per suicidio, e non sono solo i prigionieri a pagarne le spese: nello stesso periodo di tempo si sono uccisi anche 87 agenti di polizia penitenziaria. Quella che doveva essere una pena rieducativa per alcuni, e il lavoro di tutti i giorni per altri, si è trasformato in una oppressione soffocante che ha trasformato il cittadino in uno scarto della società, la quale ha già deciso per lui il momento della sua morte.
Solo ripartendo da condizioni di vita normali, quelle che rispondono ai bisogno primari, si potrà costruire il futuro di queste persone che hanno causato un danno a livello sociale. Prigioni malsane generano rabbia, cattiveria e non sono basi per costruire un futuro migliore. Questi dati devono farci riflettere su come si possano recuperare delle persone in condizioni disumane.
Emanuele Pinna