Immigrazione: cosa ne pensava Seneca?

Il tema dell’immigrazione, a seguito degli innumerevoli sbarchi a Lampedusa, è ampiamente discusso e dibattuto: in televisione vediamo agitarsi diversi esperti, politici, opinionisti e altra fauna che popola i talk show. Ognuno chiaramente si sforza di dire la sua, sostenendo le più disparate tesi. Ma se il filosofo latino Seneca potesse ancora dire la sua, zittirebbe immediatamente i chiassosi diatribanti con una lucidità e una chiarezza sconcertante. 
Ph. G. Lotti
Seneca, nel 41 d.C., si trova in Corsica, costretto all’esilio dall’imperatore Claudio. Per consolare la madre Elvia deve convincerla del fatto che l’esilio è un semplice spostamento di luogo: mentre i corpi celesti rimangono immobili nel cielo, gli uomini per natura errano e si spostano, come dimostrano i Cartaginesi che vivono in Spagna, i Galli che vivono in Grecia ecc. Svariati sono i motivi per cui la gente migra da una parte all’altra, indagati con chiarezza, e non ci si deve sorprendere di questi spostamenti. La sede dell’uomo, riprendendo la dottrina stoica, è il mondo intero, non una città o una nazione in particolare. 
Come al solito, al posto di vociare frasi piene di retorica, dovremmo apprendere dagli antichi lezioni importanti: in poche righe Seneca annulla i boriosi discorsi di chi si ostina a non capire che l’immigrazione, prima di tutto, è un fenomeno storico e naturale radicato da sempre nell’uomo.
Si trassero dietro i figli e le mogli e i genitori carichi di vecchiaia. Alcuni, sbattuti qua e là da un lungo errare, non scelsero un luogo a ragion veduta, ma occuparono per stanchezza il più vicino, altri con le armi fecero valere il proprio diritto in terra altrui; certe genti, in cerca dell’ignoto, fu il mare a inghiottirle, certe si fermarono là dove le lasciò la mancanza di ogni cosa. E il motivo di abbandonare la patria e di cercarne un’altra non fu lo stesso per tutti: alcuni, fu la distruzione delle loro città a cacciarli in terre altrui, spogliati delle proprie, in fuga dalle armi nemiche; altri, fu un conflitto civile ad esiliarli; altri, un eccesso di sovrappopolazione a farli emigrare in gran numero; altri ancora, li fece andar via una pestilenza o il frequente aprirsi della loro terra in voragini o qualche guaio intollerabile dovuto a un suolo infecondo; certi, li sedusse la fama di una regione fertile, esageratamente magnificata. Chi è stato indotto ad emigrare da un motivo, chi da un altro: è chiaro, in ogni caso, che nulla è rimasto nello stesso luogo in cui è nato. Incessante è l’andirivieni del genere umano; ogni giorno c’è qualche cambiamento in un mondo così grande: vengono gettate nuove fondamenta di città, nuove genti hanno inizio, con l’estinguersi delle precedenti o il loro andarsi ad aggiungere ad altre più potenti. Ma tutti codesti spostamenti di popoli, che altro sono se non esili pubblici?
Giulia Bitto

Seneca e il valore del tempo: ogni giorno moriamo

Quante volte sprechiamo del tempo prezioso, oziando sul divano, tamburellando con un oggetto al posto di adempiere ai nostri doveri, o semplicemente stando sdraiati senza far nulla. Molti non credono nemmeno che esista il tempo perso: siamo noi i padroni delle nostre azioni e diamo noi il valore alle nostre giornate. Per Seneca, pensatore latino che non avrebbe bisogno di presentazioni, non è affatto così: il tempo è il bene più prezioso, è l’unico dono propriamente nostro. Non se ne deve sprecare nemmeno un attimo, poiché non conosciamo quanto ancora a lungo potremo vivere.

Morte di Seneca – David
Cotidie mori dice Seneca: ogni giorno moriamo. Il passato, anche quello più immediato, è morto: e mentre Orazio con il suo carpe diem vedeva la morte davanti l’uomo, incerta e inconoscibile, Seneca la vede dietro ciascuno. Il tempo che l’uomo ha a disposizione va vissuto per arricchirsi interiormente, per acquisire saggezza, e mai si dovrebbe gettare in attività inutili e improduttive. Nella prima epistola a Lucilio Seneca espone magistralmente questa teoria:

Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.

Ogni tanto bisognerebbe fermarsi: fermarsi e riflettere su come impieghiamo la nostra vita, il nostro tempo, e sapere discernere cosa è fruttuoso e cosa non lo è affatto. E non per un bene istantaneo o un piacere volubile (cosa che più si avvicina all’epicureismo), bensì per sconfiggere la paura più grande: il futuro. Seneca non fu certo un esempio di coerenza, ma i suoi scritti dovrebbero comunque insegnarci che il bene più grande sta a noi scoprirlo.

Giulia Bitto