Il Robinson del 2000 e la sua tigre: quel che sta dietro a Vita di Pi

Tradotto in 42 lingue, vincitore di un Man Booker Prize nel 2002, riadattato in un film da Ang lee nel 2012 e venduto in sette milioni di copie, Vita di Pi (2001), è il capolavoro di Yann Martel. La storia racconta di un ragazzo indiano, Piscine Molitor Patel, soprannominato Pi, che cresce nello zoo del padre. La prima parte del romanzo è una lunga riflessione sull’infanzia del giovane: vengono descritti il suo carattere, il suo amore per gli animali – tanto che studierà zoologia – e il fascino per le religioni, talmente sentito che il bambino deciderà di abbracciarne ben tre: il cristianesimo, l’induismo e l’islamismo. La narrazione vera e propria comincia quando, per problemi economici, la famiglia di Pi decide di trasferire il proprio zoo in Canada.

Durante il viaggio la nave viene colpita da una forte tempesta e, per cause non del tutto definite, affonda. Solo il giovane Pi riesce a salvarsi su di una scialuppa, che dovrà però condividere con quattro insoliti superstiti: una zebra, un orango, una iena e una tigre reale del Bengala, chiamata Richard Parker. I primi tre animali non riescono però a sopravvivere a lungo e presto è solo la tigre l’unica compagna di disavventura di Pi. Il ragazzo riesce – grazie ad alcune provviste, un manuale di sopravvivenza e tanto coraggio – a restare in vita per ben 227 giorni in mare. Richard Parker, inizialmente suo nemico, diventa col passare del tempo una sorta di alleato e aiuto contro la solitudine. I due protagonisti infatti affrontano insieme le più strabilianti avventure: dalla pesca dei pesci volanti all’isola di alghe e lemuri, dall’incontro con il cannibale francese alla tempesta, fino al felice – ma non troppo – finale. Durante il lungo viaggio si fondono due mondi, quello reale e quello fantastico: tutto sembra così veritiero e razionale ma al tempo stesso impossibile e immaginario. Ad ingannare è anche la premessa al libro: un narratore iniziale, che probabilmente rappresenta Yann Martel dato che è anch’esso uno scrittore in cerca di una storia, racconta di aver ascoltato l’avventura da Piscine Patel stesso. 

Il libro, basato su di un’idea tanto insolita quanto geniale, non è però totalmente frutto dell’immaginazione di Yann Martell, come lui stesso ricorda. Fu infatti fortemente influenzato dalla recensione di un libro degli anni Ottanta, Piccola guida per naufraghi con giaguaro e senza sestante, scritto da un autore brasiliano, Moacyr Scliar, a cui dedica il romanzo con la seguente frase: «Sono anche in debito col signor Moacyr Scliar, per la scintilla di vita». Nonostante la recensione fosse piuttosto negativa, Martel fu colpito dalla trama del romanzo: una famiglia di ebrei, proprietaria di uno zoo a Berlino, decide di emigrare in Brasile. La nave affonda e solo un membro della famiglia riesce a salvarsi, ma ad un caro prezzo: deve condividere la sua scialuppa con un giaguaro. Yann Martel fu così colpito da questa premessa che cercò il libro ovunque, senza nessun risultato. L’idea del naufragio e di una scialuppa condivisa da un uomo e da un pericoloso felino lo affascinava tanto da renderlo invidioso; cercò così di dimenticare la recensione letta e si concentrò su altri romanzi per circa cinque anni, quando tornò per la seconda volta in India.

A Bombay, lo scrittore venne colpito da una forte crisi: il romanzo che stava scrivendo non procedeva affatto bene (così come accade nella prefazione a Vita di Pi), si sentiva inutile, solo, totalmente demotivato. Un giorno però, seduto sopra ad una roccia e aiutato dall’atmosfera indiana, ebbe un colpo di genio: all’improvviso gli tornò alla mente la recensione di quel libro che tanto l’aveva scosso ed immediatamente si crearono nella sua testa diverse scene, concetti e idee che avrebbe potuto trascrivere; in particolare lo stuzzicava l’idea di mischiare tra loro religione e zoologia, in perfetta armonia con l’ambiente indiano. Ora ne era sicuro: era pronto a scrivere. 

Da quel momento, per i successivi sei mesi, Yann Martel visitò ogni zoo dell’India del Sud, intervistò i direttori, studiò la natura, le città, le moschee, la chiese e i templi, immergendosi totalmente nella cultura indiana. In seguito decise di tornare per un anno e mezzo in Canada, dove svolse numerose ricerche sulla religione, la zoologia e i più famosi naufragi. Nel frattempo, prese appunti su qualsiasi idea riguardante il romanzo. La scelta dell’animale da collocare sulla scialuppa fu per lui la parte più difficile. Inizialmente pensò a un elefante: quelli indiani sono più piccoli di quelli africani e un esemplare giovane avrebbe potuto stare comodamente su una scialuppa; l’immagine dell’elefante tuttavia aveva un qualcosa di comico che avrebbe rovinato la storia. La seconda idea fu quella del rinoceronte, ma essendo un animale erbivoro non avrebbe potuto sopravvivere nell’oceano se non grazie alle alghe. Poi, finalmente, l’idea della tigre del Bengala, così potente e maestosa al tempo stesso.

Gli altri animali presenti sulla scialuppa simboleggiano, secondo l’autore, dei tratti tipicamente umani: la codardia della iena, l’istinto materno dell’orango e l’esoticità della zebra. Infine, il cannibale francese cieco fu creato nella mente dell’autore in uno dei primi momenti in cui, in India, decise di occuparsi della storia. L’idea piacque così tanto allo scrittore che la prima bozza di quella parte era formata da ben quarantacinque pagine. In parte assurda, si trattava di una delle su parti preferite proprio perché, a suo dire, era una sorta di “Beckett in the Pacific”. Sotto consiglio della sua editrice, decise però di tagliare gran parte della scena in quanto stridente con il resto del romanzo, come “una bella barzelletta ad un funerale”

Nonostante lo ‘scampato’ plagio, Martel sembra lo scrittore ideale per questo tipo di storia: nato in Spagna da dei genitori franco-candesi, l’autore si può definire cittadino del mondo, soprattutto grazie ai numerosi viaggi e ai lunghi soggiorni nei paesi più disparati. Chi meglio di lui – in aggiunta studente di Filosofia all’università di Peterborough, Ontario – avrebbe potuto scrivere riguardo le diverse credenze e culture, riguardo l’avventura e il viaggio? 
Il libro è interessante soprattutto perché offre molti spunti di riflessione. Prima di tutto potrebbe essere considerato un’allegoria, ma sta al lettore trovarne il vero significato. Nelle ultime pagine viene infatti proposta una storia alternativa, molto più credibile e realistica, in grado di soddisfare i lettori più razionali: potrebbe trattarsi di una metafora della fede, dell’immaginazione contro la razionalità. La tigre potrebbe essere poi il simbolo della brutalità ed animalità che affiora nella personalità del protagonista durante la difficile prova a cui è sottoposto: durante i sette mesi in mare Pi riscopre la sua parte più selvaggia, che abbandona, così come abbandona Richard Parker, una volta tornato sulla terra ferma. 

E’ poi interessante la visione del mondo animale e del suo rapporto con quello umano, molto distante da quello ‘classico’ dei romanzi o delle favole: è una visione molto cruda, realistica e per niente moraleggiante. Nonostante a Richard Parker venga dato un nome tipicamente da uomo, l’animale non viene mai umanizzato da Yann Martel: il nome umano sottolinea il fatto che si tratta di un personaggio a tutti gli effetti – completo di nome e cognome – a cui il lettore potrà affezionarsi, rendendolo al pari di Pi. La grande novità infatti sta nel fatto che, mentre Robins Crusoe, il naufrago per eccellenza, vedeva negli animali che popolavano la sua isola soltanto dei compagni a lui inferiori, Pi e Richard Parker sono invece sullo stesso piano e dovranno lottare ad armi differenti ma pari per poter sopravvivere. La tigre, nonostante abbia un ruolo fondamentale, resterà però sempre e solo un animale selvaggio, mosso dagli istinti, e non dalle emozioni. Anche se nel romanzo si crea tra i due protagonisti un legame che sfiora quasi l’amicizia, non si tratta mai di un’amicizia sentimentale, il loro rapporto è solo uno strumento utilizzato per sopravvivere in mezzo al dolore del naufragio.

Pi nutre Richard Parker solo per evitare di essere mangiato a sua volta e, col passare del tempo, lo fa per darsi uno scopo, un motivo per affrontare ogni nuovo giorno. Dall’altra parte, l’animale sembra risparmiare il compagno di viaggio non per affetto, ma per arrendevolezza e forse comodità. Il tentativo di disumanizzazione del rapporto non è però sempre efficace: si crea tra i due, involontariamente, una sorta di necessità e di bisogno reciproco che è difficile staccare da un ideale più romantico, in particolare nella parte finale dove Pi cerca disperatamente un addio umano, che non arriverà. E’ questa la parte davvero emozionante del romanzo: Richard Parker resterà sempre un animale, senza raggiungere mai una sorta di umanità. Questo è straziante, tanto per Pi quanto per il lettore, che vede allontanarsi con distacco un amico a cui, pagina per pagina, si era affezionato. 

I naufragi fotografati da John Gibson

Il National Maritime Museum di Londra ha recentemente acquisito una collezione fotografica che mostra diversi disastri navali durante il diciannovesimo e ventesimo secolo.

John Gibson (1827–1920), l’autore di questa collana, iniziò, alla fine del 1860, quello che sarebbe diventato un vero e proprio business fotografico per lui e la sua famiglia. La sua prima fotografia raffigurante un naufragio, risale al 1869.

Grazie all’insegnamento del padre, i suoi due figli, Alexander and Herbert, catturarono alcune delle immagini più evocative nella storia delle tragedie del mare. L’archivio delle immagini di Gibson fu costruito foto dopo foto in ben 125 anni (1872 to 1997), da quattro generazioni della famiglia.

Le immagini mostrate, Clicca qui per vedere l’archivio di Gibson, anche se narrano di un argomento tragico e ad oggi ancora attuale, sono un chiaro esempio dell’immenso potere della fotografia nel raccontare la storia, con emozioni, dolori, gioie e l’insieme di sensazioni che solo un breve istante “congelato per sempre” può trasmettere.