La riforma cancella la Storia dell’Arte, rivolta nelle scuole

Il paese di Raffaello, Leonardo, Giotto, Michelangelo, del romanico, del gotico, dell’arte greca, romana, araba, bizantina, degli Uffizi e dei Musei Vaticani e di altri milioni di opere ha deciso di chiudere bottega: dall’anno prossimo, in Italia, l’insegnamento di Storia dell’Arte scomparirà. Ultimo effetto della contestata riforma Gelmini, la cancellazione di un insegnamento di tale portata in modo indiscriminato rischiava di avvenire nel silenzio, se non fosse stato per una campagna dei docenti che, a mezzo web, stanno cercando di promuovere la loro causa. Perché Storia dell’Arte, laddove fatta con criterio, è una di quelle materie dalle quali un corso di studio non può prescindere: come si può rinunciare a due ore settimanali di educazione al bello, all’estetica, alla conoscenza sistematica del nostro patrimonio artistico-culturale? Come si può uscire dalle secche della crisi se non educando le nuove leve al gusto, all’apprezzare l’Arte al di là delle grette logiche economiche?

Ma per un ministero sempre più miope alle esigenze della società civile Storia dell’Arte è diventata una materia superflua, un numero, una somma da tagliare al monte spese. Come sorprendersi? Non abbiamo forse tagliato sulla cultura, sulla sanità, sul lavoro? Cosa sarà mai se dalle superiori usciranno menti settorializzate, capaci di “fare la O” solo col loro, piccolo, bicchiere di competenza, incapaci di infilare due parole di fila sulle differenze tra Rinascimento e Romanticismo, tra Caravaggio e Boccioni? 
Me li vedo, tra qualche anno, la generazione dei post-Storia dell’Arte, a vagare per i Musei con le audio-guide e la faccia da ebeti. E non sarà manco colpa loro, ma di una politica idiota che continua a marciare sui nostri cervelli: continuiamo a indottrinarci con lo spread, con la borsa, con la crisi e non cerchiamo soluzioni, non abbiamo né idee né memoria; portiamo ora, con la fine della Storia dell’Arte nelle scuole, dritto nella tomba della depressione, l’ultimo barlume di senso estetico che ci resta nel profondo delle coscienze italiche (ma, se cancelliamo l’arte, ancora per quanto potremo chiamarci così?) 
Roberto Saglimbeni