
E pensare che Zanetti (845 presenze con l’Inter, 137 consecutive, 82 in Champions da capitano, 16 trofei nel club, tutti record) era arrivato al calcio quasi per caso, dopo essere stato scartato per la sua struttura fisica. Mentre lavorava col padre, muratore di Buenos Aires, il fratello Sergio lo aveva invitato a fare un provino nel Talleres, squadra in cui militava. “Vieni, te la metto io una buona parola” gli avrà detto, ma Javier niente, non ne vuole sapere di passare per raccomandato. Aspetterà il 1992, anno in cui il fratello si sarà trasferito, per passare brillantemente il provino e assicurarsi il primo contratto da professionista, potendo smettere di vendere il latte la mattina, prima degli allenamenti, per mantenere la famiglia. Di lì a poco fu notato dal Banfield, i cui dirigenti si autotassarono per portarlo nella Prima Divisione Argentina e, dopo tre anni, su consiglio di Angelillo, l’approdo all’Inter.
Era il primo anno di Massimo Moratti, e Zanetti arrivò come appendice sconosciuta del più quotato Rambert, tanto da profilarsi per lui un ipotesi di prestito. Una sola voce, quella di Diego Armando Maradona, sostenne che il vero colpo dell’Inter era quell’argentino uscito da una fotografia dell’800, coi capelli sempre a posto e una resistenza incredibile. Quasi vent’anni dopo, possiamo dire che la Mano de Dios aveva ragione. Fuoriclasse in campo, Gentiluomo fuori, bandiera itinerante del calcio, applaudito da tifosi e avversari, forse all’ultimo giro di boa ma con la stessa voglia di mettersi in gioco. E allora 40 volte auguri, Pupi!
Roberto Saglimbeni