La letteratura che libera: quando la poesia viene da dietro le sbarre

Figli 

Rendetemi cieca e io 
vivrò felice di sentire 
il loro respiro. 
Vivrò con il tocco delle loro
mani come fossero vibrisse di gatto 
o piccoli nastri d’argento. 
Come giunchi loro sono cresciuti 
persistenti alla vita 
nulla si crea, nulla si distrugge 
il mio amore per loro 
dà fuoco alle valanghe. 
 – Tatiana Mogavero 
Avete presente lo stereotipo del carcerato? Un omone grande e grosso, con l’aria gelida, magari un po’ la luna storta e le braccia ricoperte di tatuaggi? Dimenticatelo. Spesso pensando al carcere si dimentica l’umanità che, pur mascherata dietro ad uno sbaglio, non smette mai di esistere. Prima di essere criminali, i carcerati sono uomini o donne. E’ questo ciò che è stato mostrato ieri, giovedì 21 novembre, all’incontro di Bookcity “Giustizia penale e società civile”, svoltosi all’Università degli Studi di Milano. Oltre ad essere stata un’occasione per celebrare i 250 anni dalla pubblicazione dell’opera di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, l’incontro ha visto la partecipazione di alcuni detenuti delle carceri di San Vittore, Opera e Bollate. 

Come è stato più volte ricordato, la poesia e la detenzione sembrerebbero – in apparenza – due concetti lontani e inconciliabili. E’ stato però dimostrato che non è affatto così: nel carcere di Bollate infatti le due scrittrici Anna Maria Carpi e Maddalena Capalbi hanno creato sei anni fa – e curano tuttora – un laboratorio di poesia. Si tratta di una grande opera di volontariato che ogni sabato mattina consente ai detenuti di mettere su carta i loro più intimi pensieri, sperimentando, riflettendo e giocando con le parole. Molti di loro si sono fatti coraggio e, vinta la timidezza e la ritrosia iniziale, hanno esposto le loro sensazioni in modo completamente nuovo. Il risultato è ben visibile nelle due antologie dove vengono raccolte trenta poesie scritte dai detenuti: la prima “Sono i miei occhi” (2012) e la seconda “Quell’azzurro che non comprendo” (2013). Entrambi i titoli sono stati tratti da alcuni versi dei componimenti presenti nelle due opere; in particolare “Quell’azzurro che non comprendo” è divenuto il titolo dell’ultima raccolta perché in grado di dare una visione colorata del mondo non dal punto di vista di chi è fuori, ma di chi deve vivere tra il grigio delle mura di un carcere.
Oltre alle due antologie poetiche, il laboratorio ha dato i suoi frutti mostrando al pubblico di Bookcity l’anima più ‘sentimentale’ di quei carcerati tanto stereotipati e disumanizzati dall’ideologia comune. Agli occhi degli spettatori si sono presentate persone emozionate, commosse, in grado di sostenersi a vicenda e farsi coraggio tra loro con grande umiltà. E’ stato poi ricordato come per molti la letteratura sia stata una vera e propria cura: appassionarsi alla lettura e alla scrittura ha permesso ad alcuni di loro di trovare il modo in cui sfogare la propria rabbia, le proprie paure o incertezze. Non più quindi la criminalità, ma la cultura come soluzione ai propri problemi. 


Tra una poesia e l’altra, è stato inoltre reso noto come molti detenuti fossero all’inizio totalmente estranei al mondo letterario; le opere da loro scritte mostrano tuttavia una grande profondità e dedizione. Alcuni componimenti sono caratterizzati da una grande cura nella forma (rime, allitterazioni, ritmi coinvolgenti degni di poeti esperti), altri invece sono molto più semplici ed ingenui, ma sinceri. Ciò che accomuna tutte queste opere, diverse per forma e contenuto, è la voglia di esprimersi, mettersi in gioco e, perché no, mostrare al mondo quel che sta dietro a un ingenuo pregiudizio.

I cancri dell’Italia – La giustizia (Parte 3)

Parte 2: I mezzi di informazione

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La giustizia è l’istituzione nevralgica di ogni Stato di diritto. La giustizia, che è messa in atto sempre come volontà del popolo, è potere legittimo di tutelare i diritti di tutti, è quell’istituzione che protegge i diritti dei cittadini e risolve i conflitti sociali. Da ciò si comprende come la sua inefficienza minacci concretamente la democrazia. Questo è ciò che succede attualmente in Italia, dove la giustizia, analizzando i dati, è fondamentalmente in crisi e rappresenta un cancro tutto nostrano.
In Italia la giustizia è impantanata in una miriade di processi: si contano, infatti, 9 milioni ogni anno tra cause penali e civili. A ciò è da aggiungere l’insopportabile lentezza nei procedimenti: ad esempio, la durata media di un processo civile ordinario di primo grado varia dai 500 giorni di Torino fino ai 1500 di Messina. La lentezza, come è chiaro, non è solamente penalizzante per le parti in causa, che devono attendere per avere giustizia con il rischio che il processo pendente finisca in prescrizione, ma comporta un vero e proprio salasso per le casse dello Stato che nel 2011 ha sborsato 84 milioni di euro per gli indennizzi delle cause lumaca. Sempre a proposito di indennizzi, per quanto riguarda gli errori giudiziari in quasi 2.500 procedimenti, si è arrivati a un costo totale 46 milioni di euro.

Dal punto di vista economico, oltre che la spesa per le casse dello Stato, l’inefficienza e la lentezza dei processi civili rendono il Paese poco appetibile per gli investitori stranieri e rischiano di far fuggire anche quelli italiani. Secondo la Banca d’Italia, infatti, se la nostra giustizia fosse celere ed efficiente guadagneremmo 1 punto percentuale di Pil all’anno. A proposito di ciò si può citare il rapporto ‘Doing Business 2012′ della Banca Mondiale, in cui l’Italia continua a perdere posizioni. E’ fanalino di coda in Ue e non va meglio il confronto con il resto del pianeta: 158° su 183 paesi. Meglio di noi Gambia, Mongolia e Vietnam, impari il confronto con il Vecchio Continente.

Dall’analisi delle inefficienze del nostro sistema giudiziario, si possono offrire diverse soluzioni che il Parlamento italiano ha voluto continuamente rinviare. Questi rinvii non riguardano gli ultimi decenni perché è sufficiente dire che il nostro codice penale viene chiamato “codice Rocco”, in quanto approvato nel 1930 dal Ministro della Giustizia fascista Alfredo Rocco. Nell’analisi e nell’approvazione di riforme strutturali, bisognerebbe tenere conto di istituzioni mediatrici, grazie alle quali le controversie possono essere risolte senza andare a processo, sarebbe necessario rinforzare la digitalizzazione a scapito della burocrazia, e infine sarebbe utile infondere certezza della pena e incentivare celerità nei provvedimenti.
Strettamente collegato al grande problema del sistema giudiziario vi è il dramma, più che mai attuale, delle carceri italiane. Come è possibile che una democrazia avanzata come l’Italia venga più volte condannata dalla Corte di Strasburgo per trattamento inumano e degradante inflitto ai propri cittadini?
Il problema principale è la dotazione delle strutture carcerarie: dal 2008, infatti, si è superato il limite di allarme che è di 130 presenze ogni 100 posti. Quasi il 40% dei detenuti soggiornano inoltre nelle carceri in attesa di giudizio, senza dunque sapere se siano o meno colpevoli. Nel nostro paese, dal 2000 ad oggi sono morti 1.800 detenuti, di cui ben 650 per suicidio, e non sono solo i prigionieri a pagarne le spese: nello stesso periodo di tempo si sono uccisi anche 87 agenti di polizia penitenziaria. Quella che doveva essere una pena rieducativa per alcuni, e il lavoro di tutti i giorni per altri, si è trasformato in una oppressione soffocante che ha trasformato il cittadino in uno scarto della società, la quale ha già deciso per lui il momento della sua morte.
Solo ripartendo da condizioni di vita normali, quelle che rispondono ai bisogno primari, si potrà costruire il futuro di queste persone che hanno causato un danno a livello sociale. Prigioni malsane generano rabbia, cattiveria e non sono basi per costruire un futuro migliore. Questi dati devono farci riflettere su come si possano recuperare delle persone in condizioni disumane.
Emanuele Pinna