Argonautiche: Il dardo di Eros fa innamorare Medea

La complessa vicenda delle Argonautiche del poeta alessandrino Apollonio Rodio vede come protagonista femminile Medea, donna già comparsa nell’omonima tragedia di Euripide (vedi Psicologia femminile nella Medea). L’innamoramento di Medea avviene per i soliti capricci divini: Era e Atena convincono Afrodite a inviare suo figlio Eros sulla terra per fare innamorare la donna dell’eroe Giasone, affinché ella lo aiuti ad ottenere il vello d’oro. 

Ma la descrizione di Apollonio non si limita alla semplice esposizione dei fatti: riprendendo il modello di Saffo (vedi Fenomenologia d’amore in Saffo) egli delinea in modo nuovo e particolareggiato lo sconvolgimento interiore della donna, che, colpita dal dardo del dio, è arsa da un fuoco interiore e paralizzata. Come la fiamma di un tizzone, alimentato da una vecchia filatrice, brucia e fa brillare la casa, così Medea ha il cuore avvampato, gli occhi che brillano, le guance rosse. Le nefaste conseguenze di questo amore si svilupperanno nei capitoli successivi, per condurre al tragico epilogo che tutti conosciamo. 

Ciò che ci appare del tutto nuova e gradevole è anche la caratterizzazione di Eros, bambino petulante e viziato, che compie la missione posta da Afrodite con “sguardo ammiccante“, e, divertito, gongolando di gioia scappa dalla sala. A questa allegria si contrappone la sofferenza/amore di Medea, vittima dei capricci divini, che “consuma il suo animo nel dolore dolcissimo“. Eros dolce-amaro diceva Saffo: mai ossimoro fu più azzeccato.

Intanto giunse Eros per l’aria chiara, invisibile, violento, come si scaglia sulle giovani vacche l’assillo che i mandriani usano chiamare tafano. Rapidamente nel vestibolo, accanto allo stipite, tese il suo arco e prese una freccia intatta, apportatrice di pene. Poi, senza farsi vedere, varcò la soglia con passo veloce e ammiccando, e facendosi piccolo scivolò ai piedi di Giasone; adattò la cocca in mezzo alla corda, tese l’arco con ambo le braccia, e scagliò il dardo contro Medea: un muto stupore le prese l’anima. Lui corse fuori, ridendo, dall’altissima sala, ma la freccia ardeva profonda nel cuore della fanciulla come una fiamma; e lei sempre gettava il lampo degli occhi in fronte al figlio di Esone, e il cuore, pur saggio, le usciva per l’affanno dal petto; non ricordava nient’altro e consumava il suo animo nel dolore dolcissimo. Come una filatrice, che vive lavorando la lana, getta fuscelli sopra il tizzone ardente, e nella notte brilla la luce sotto il suo tetto – si è alzata prestissimo – la fiamma si leva immensa dal piccolo legno, e riduce in cenere tutti i fuscelli; così a questo modo terribile Eros, insinuatosi dentro il cuore, ardeva in segreto; e, smarrita la mente, le morbide guance diventavano pallide e rosse.

Giulia Bitto

La gorgone Medusa di Gian Lorenzo Bernini

La gorgone Medusa è sicuramente una delle figure più affascinanti della mitologia greca, figlia di Forco e di Ceto, aveva due sorelle: Steno ed  Euriale. Nelle “Metamorfosi”, Ovidio narra che Medusa, la più bella e mortale delle Gorgoni, aveva il potere di pietrificare chiunque osasse incrociare il suo sguardo. Solo Perseo riuscì ad ucciderla tagliandole la testa mentre Medusa era addormentata.

Tutte le rappresentazioni della Gorgone ci sono arrivate sotto forma di una creatura mostruosa e terrificante, chi l’ha dipinta l’ha fatto con colori scuri e tratti duri, chi l’ha scolpita l’ha impressa nel marmo con cattiveria e perfidia. L’unica rappresentazione che rende giustizia a questo meraviglioso personaggio è quella del Bernini, che la realizzò presumibilmente negli anni di pontificato di Papa Innocenzo X, tra il 1644 e il 1648. La medusa del Bernini ci appare serafica, non si scompone al passaggio delle migliaia di persone che  si fermano ad osservarla, è lì, con lo sguardo basso, con l’aria rassegnata: Medusa sa di non godere di una buona reputazione. Ironia della sorte, pietrificava chiunque la guardasse negli occhi ed ora è lì, imprigionata nel pregiato marmo bianco che il Bernini ha scelto per lei. Le linee morbide e la plasticità dello sguardo le donano un’ aria mite; è bella, di una bellezza classica, arcaica, lontana.

Tutto è fermo e sospeso, l’unica nota di movimento è data dalla capigliatura, i serpenti sembrano voler ribellarsi per lei, ad un primo sguardo sembrano muoversi, aggrovigliarsi sembrano persino sibilare. Tutto è sospeso tra l’inquietudine e la calma. Un gioco eccelso di luce ed ombra le conferisce un’aria austera ma triste nel contempo. Ciò che più destabilizza di quest’opera è proprio la scelta di far tenere lo sguardo basso ad un personaggio così forte e così controverso.

Bernini ha messo uno specchio immaginario sotto la Medusa scolpendo così nel marmo il suo sguardo nel momento della sua trasformazione; la bocca socchiusa, lo sguardo accigliato e il volto stretto in una smorfia di stupore e spavento. Nessuna descrizione potrà mai trasmettere quello che si prova stando di fronte ad un’opera del genere, bisogna vederla; d’altronde trovarla non è difficile, Medusa è sempre lì, ai Musei Capitolini, nella sala degli Arazzi del Palazzo dei Conservatori.

Francesco Bitto  Consuelo Renzetti

Il mito di Aracne e la nascita del ragno

La mitologia spesso incuriosisce per il modo con cui offre soluzioni riguardo l’origine di animali, usi o particolari manifestazioni. Tramite le storie sugli dèi e sulle loro avventure (tra di essi o con gli umani), gli antichi cercavano di spiegare e rendere i noti i misteri della natura: come, ad esempio, l’origine del ragno.

Velàzquez – Mito di Aracne
Il mito ha origini greche, e viene raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. Figlia di Idmone di Colofone, un tintore di porpora, Aracne viveva con il padre in Lidia. La fanciulla aveva grandissima fama per la sua abilità nel tessere e ricamare, arti che erano proprie di Atena: tutti credevano che la ragazza avesse appreso dalla dea le tecniche. Ma Aracne rivendicava il suo primato e il suo talento, affermando non solo che ella aveva imparato da sé, ma che Atena le era anche inferiore: così decise di sfidarla in una gara.
Gustave Doré – Aracne (incisione; Purgatorio XII)
La dea olimpica si presentò dalla fanciulla travestita da vecchia, consigliando vivamente alla ragazza di lasciar perdere la sfida e non gareggiare con una dea: le ripercussioni sarebbero potute essere gravi. Ma al rifiuto di Aracne Atena si rivelò e volle iniziare la competizione. La dea intessé una tela raffigurante gli dei dell’Olimpo, maestosi e severi, e agli angoli la sorte dei mortali troppo arroganti puniti dalle divinità. Ma Aracne si superò. Il lavoro che fece non solo era perfetto, ma raffigurava qualcosa di molto sconveniente: gli amori disonorevoli e vergognosi degli dei (Europa e Zeus, Leda e il cigno ecc.).
Francesco del Cossa – Trionfo di Minerva
Atena, non riuscendo a trovare alcun difetto nella tela e sconvolta per le raffigurazioni, si adirò talmente tanto che distrusse il lavoro dell’avversaria e la colpì in faccia con la spola. Aracne, umiliata e spaventata, tentò di impiccarsi a una trave: ma Atena decise di trasformarla in un ragno, cosicché la ragazza, per tutta la vita, avrebbe filato dalla bocca. Il mito è citato da Virgilio, Ovidio, Dante e Boccaccio oltre che raffigurato innumerevoli volte nei secoli: la hybris (tracotanza) dell’uomo, dimostra per l’ennesima volta la mitologia, è sempre punita severamente dagli (invidiosi) dei.
Giulia Bitto