La Santa: non è semplice come girare un videoclip – Recensione Film

Presentato fuori concorso alla Festa del Cinema di Roma, “La Santa” è la storia di quattro poveri criminali, perlopiù improvvisati, che sullo sfondo della crisi tentano un colpo, sperando di dare una svolta alle loro esistenze.
Rubare l’antica statua di Santa Vittoria, patrona di un paesino sperduto nell’entroterra pugliese. Un piano semplice solo sulla carta, i quattro si ritroveranno braccati dall’intero paese, senza via di scampo. Gli abitanti del paese, fucili in spalla, rivogliono ciò che gli è stato sottratto. Quella è la loro Santa.
Com’era già successo per il precedente At the end of the day (l’horror/opera prima del regista romano Cosimo Alemà) il pensiero va veloce a Un tranquillo weekend di paura, anche qui infatti siamo di fronte ad un gruppo di persone completamente perso e rifiutato da un habitat ostile e violento.
La città è lontana anni luce dalla campagna pugliese e non c’è pietà per i quattro criminali, se non da chi, come loro, sta cercando in tutti i modi di fuggire da quel mondo.
Non c’è pietà: la statua infatti non rappresenta un sentimento religioso e i suoi comandamenti ma è il simbolo di una realtà aliena, una realtà superstiziosa ferma nel tempo che risponde a leggi e meccanismi differenti da quelli del mondo esterno, dove la natura è diversa, dove gli uomini, le donne e perfino i bambini sono diversi.
La statua è un simbolo che deve assolutamente rimanere al suo posto, un po’ come il tesoro di un faraone. 
 
Questo è l’ambientazione che emerge abbastanza bene attraverso il registro del grottesco, in cui sono costretti a muoversi i quattro protagonisti (Massimo Gallo, Gianluca Di Gennaro, Michael Schermi e Francesco Siciliano, quest’ultimo anche produttore), ma ciò che doveva essere il vero motore di tutto il film  si perde per strada, purtroppo e l’action esce sconfitto dal duello contro la verbosità di un’analisi sociale, mai realmente a fuoco.
C’è l’ombra del lungo passato di Alemà nel mondo del videoclip, per tutta la durata del film e se da una parte ne beneficia la selezione musicale, dall’altra ne risente più o meno tutto il resto.
Continua camera a mano perennemente attaccata ai soggetti, fotografia anonima e (quasi) totale assenza di profondità di campo: sono tutti elementi che appesantiscono la visione, non giovano all’intrattenimento e tarpano le ali ad un soggetto che poteva essere sfruttato meglio.
Peccato perchè i presupposti per un bel western c’erano tutti.