L’uomo e il coraggio: l’Ercole di Lisippo

Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli è una gemma rara per il patrimonio artistico e culturale italiano, chi l’ha visitato almeno una volta nella vita sa bene cosa si prova nel percorrere i suoi corridoi, nel salire le sue scale e nell’ attraversare le sue maestose stanze; ma, tra tutte le meraviglie conservate gelosamente nel palazzo seicentesco, il visitatore più affezionato sa bene dove dirigersi, e lo fa anche con una fretta che definirei quasi avida, perché sa che lì, nella galleria Farnese, si sentirà immerso nella bellezza pura.

Entrati nella sezione Farnese il visitatore non ha tregua: “L’Eros”, il “Ganimede con l’aquila”, “Era”, “Il toro Farnese”, e ancora la “Venere Callipigia”, Il “Satiro con Dioniso”, i Tirannicidi Armodio e Aristogitone e poi finalmente lui, l’Ercole Farnese. Immenso, maestoso, 317 cm di pura bellezza. L’Ercole Farnese è una creazione di Lisippo ed è databile III secolo d.C. Ercole incarna la forza, il coraggio, la tenacia, ma anche la fragilità dell’uomo; Ercole è l’eroe per antonomasia, per tutta la sua vita ha combattuto per avere l’immortalità, che gli Dei gelosi non avevano voluto concedergli nonostante fosse figlio di Zeus. Dodici furono le prove che Ercole dovette affrontare per ricevere la tanto agognata immortalità e Lisippo ha voluto rendergli omaggio scolpendolo nel marmo alla fine delle sue fatiche: stanco, sfinito, ma trionfante ed etereo. Appoggiato alla clava si riposa e stringe con forza i pomi d’oro, rubati alle Esperidi, che gli garantiranno l’immortalità.

Quello che mi ha sempre emozionato di questa scultura è l’attenta esecuzione della muscolatura degli arti superiori. Il braccio sinistro, rilassato, con i muscoli distesi rappresentano il meritato riposo, sembrano tirare un sospiro di sollievo. Il braccio destro invece è energico, vitale. Ercole stringe i pomi d’oro con forza, non vuole farsi sfuggire il suo premio, quei muscoli contratti, tesi e vigorosi sembrano gridare per la gioia di aver ottenuto, dopo tanto patire, il meritato premio. 

La tecnica è sopraffina, (ma dopotutto stiamo parlando di Lisippo), è tutto perfetto, le vene, i muscoli, i capelli, la barba. La perfezione. “Ercole è definitivamente divinizzato; egli ha compite le imprese che gli hanno aperto la via dell’Olimpo e liberato da qualsiasi terrestre bisogno”. J.J.Winckelmann.

Consuelo Renzetti

Tecnica e pathos: il Laocoonte

Fuggimmo esangui alla lor vista, e quelli con sicuro cammino dritti volsero contro Laocoonte; e prima i corpi dei suoi figli orribilmente avvinti, e l’uno e l’altro serpe a sé li strinse pascendosi coi morsi delle membra, e poi lui stesso, in loro aiuto accorso con l’armi in mano, afferrano ed avvolgono nelle lor spire smisurate. Poi, al collo date le squamose terga, col capo e l’ alte creste lo sovrastano. Egli strappar quei nodi con le mani  tentava pur, di sangue e di veleno sporche le bende; ed urli al cielo orrendi alzava intanto, pari a quei muggiti quando un toro ferito fugge l’ara, scossa dal capo la malferma scure.” 
Laocoonte fu così punito per aver cercato di opporsi all’ingresso del cavallo di Troia nella città: Timeo Danaos et dona ferentes” disse, scagliando una freccia nel ventre del cavallo di Troia. Laocoonte doveva morire, così decise Atena. 

Il gruppo scultoreo del Laocoonte venne ritrovato nel 1506 a Roma sull’Esquilino e subito identificato con il Laocoonte descritto da Plinio, eseguito da Agesandro, Atanodoro e Polidoro, tre scultori provenienti dall’illustrissima scuola di Rodi. L’opera narra l’episodio in maniera eccelsa, ed è sicuramente il più bell’esempio di barocco ellenistico giunto sino a noi. La scultura in marmo è solo una copia di un bronzo fuso a Pergamo nel II secolo a.C. Tecnica e pathos si intrecciano sapientemente in quest’opera:  la dinamicità dei corpi che tentano di sottrarsi alla stretta mortale dei due serpenti marini esprimono la grande forza d’animo del sacerdote e dei suoi figli. Gli occhi dello spettatore non possono non soffermarsi sul volto sofferente di Laocoonte; chiunque abbia visto questa statua almeno una volta può confermare che ci si sente impotenti al suo cospetto, ci si immedesima nel dolore di un padre che decide di sacrificare la propria vita e quella dei i suoi amati figli per la salvezza della sua città.

La drammaticità della scena non si limita solo a Laocoonte: spostando lo sguardo a sinistra della composizione troviamo uno dei figli che, ormai stanco di lottare, si abbandona alla presa del serpente, mentre sulla destra troviamo il secondo figlio, che lotta ancora con tutte le sue forze, tenta di divincolarsi e guarda faticosamente il padre, anch’egli intento a lottare contro i due feroci punitori.

Il Laocoonte ha rapito il cuore di molti grandi della storia: Michelangelo, che assistette al suo ritrovamento, ne fu talmente colpito da influenzare lo stile di molte sue opere (come possiamo ben notare nel San Matteo e nello Schiavo morente). Napoleone lo apprezzò a tal punto che, nel 1799, lo portò in Francia e lo fece sistemare nel Museo del Louvre. Oggi si trova nei Musei Vaticani a Roma e vanta circa 5 milioni di visitatori l’anno, 5 milioni di visitatori che non dimenticheranno mai il coraggio e la sofferenza di Laocoonte.

“Laocoonte soffre; ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta”.  J.J.Winckelmann

Francesco Bitto 
Consuelo Renzetti