L’arbitro brasiliano, “malcapitato omicida” |
Violenze
Turchia, a due passi dal baratro. Scontro finale per la democrazia?
Turchia, Giugno 2013 |
Se ne sente parlare poco, troppo poco, eppure a poche centinaia di km da noi, in pieno territorio europeo, Istanbul sta vivendo alcune delle ore più drammatiche della sua bellissima, millenaria storia. Sarà perché la Turchia é un alleato strategico, un candidato ad entrare nell’UE, un tassello di fondamentale importanza nel complicato quadro del Medio Oriente; sarà perché Erdogan, premier dal 2003, é amico personale di Berlusconi e di molti leader del vecchio continente; sarà perché in fondo abbiamo i nostri problemi e ci basta che l’Italia vinca 2-1 col Messico per mettere Pirlo (col dovuto rispetto, campione) in prima pagina e la rivolta turca un po’ più in fondo…
Il premier turco Erdogan |
Ma cerchiamo di mettere un po’ di ordine, partendo da lontano: é il 1998 quando un esponente dell’islamico Partito del Benessere, Recip Erdogan, viene imprigionato per istigazione all’odio religioso. Siamo nel paese del laico Mustafa Kemal, il “padre dei Turchi”, nell’unica zona del mondo arabo in cui essere islamici non é un dovere né un motivo di vanto. Erdogan sconta la pena, esce, fonda un nuovo partito e vince le elezioni: nel 2003, con un Porcellum alla turca, ottiene il 66% dei seggi con “solo” il 34% dei voti.
La donna in rosso, simbolo della rivolta, attaccata dalla polizia |
Manifestante bruciata dalle sostanze usate dalle forze dell’ordine |
28 Maggio 2013: alcune decine di manifestanti iniziano a presidiare Gezi Park, polmone verde della parte europea di Istanbul, designato dall’amministrazione come sede di un nuovo centro commerciale. La protesta, inizialmente di poco conto, si espande a macchia d’olio in conseguenza della violenta repressione della polizia, che non esita a sparare gas lacrimogeni; parallelamente il premier Erdogan, tornato in fretta e furia da una visita all’estero, dichiara il pugno di ferro e attacca i media stranieri, colpevoli di twittare contro la Turchia. Primi scontri, primi feriti, primi morti. Un poliziotto, lanciato alla carica sui manifestanti, cade da un ponte, un ragazzo di appena 26 anni viene colpito alla testa e non si risveglia più.
La protesta dilaga e infiamma il paese: ad Ankara, Izmir, Bursa, Edirne e in tutte le principali città si formano cortei, occupazioni spontanee, barricate. Si va avanti così ormai da 20 giorni, e la Turchia non conosce pace, tregua, tolleranza. Non si tratta più solo degli alberi di Gezi Park, si chiedono garanzie di libertà, di laicità dello Stato, di evitare derive autoritarie ben note a un leader amico di Gheddafi e Assad. Ieri, dopo aver chiamato a raccolta i suoi sostenitori, Erdogan ha tenuto un infuocato comizio, sostenendo che fosse un suo dovere “liberare” Gezi Park e che i manifestanti (cui ha, seppur tardivamente, proposto un referendum sul destino della zona contesa) hanno il dovere di allontanarsi spontaneamente o verranno costretti a farlo.
Ma non si registrano cenni di resa dal fronte di #OccupyGezi, né dal variegato mondo retrostante: si sta consumando, sotto i nostri inconsapevoli occhi, la resa dei conti tra due modi opposti di intendere l’Islam nella vita pubblica. Qualunque sia il risultato, sarà storico e definitivo: intanto noi, condannando il comportamento aggressivo delle forze dell’ordine (la foto qui accanto testimonia in modo inequivocabile l’aggiunta di sostanze chimiche all’acqua spruzzata sui manifestanti), ricordiamo come, sebbene Erdogan non sia qualificabile (per ora) come un dittatore, i ragazzi turchi stiano soltando esercitando un civilissimo ed estremamente europeo “Diritto di Resistenza”.