Alceo, il poeta del vino e dell’ebbrezza

Il vino è specchio dell’uomo.

Nel VII secolo a.C. Lesbo era travagliata da contese politiche che sfociarono in un regime assolutistico guidato da tre tiranni. Alceo, nato nel 630 a.C. nell’isola, si oppose attivamente ai governanti: insieme agli altri aristocratici si radunava nell’etèria (congregazione di àristhoi in cui avvenivano i simposi) per dibattere di argomenti politici e trovare soluzioni. Ma in queste riunioni grande spazio ero dato anche alla poesia e al vino: dimenticare gli affanni e ascoltare un buon componimento erano gli obiettivi secondari degli hetairoi. 


Gònfiati di vino: già l’astro 
che segna l’estate dal giro 
celeste ritorna, 
tutto è arso di sete, 
e l’aria fumica per la calura. 
Acuta tra le foglie degli alberi
la dolce cicala di sotto le ali 
fitto vibra il suo canto, quando 
il sole a picco sgretola la terra.
Solo il cardo è in fiore:
le femmine hanno avido il sesso,
i maschi poco vigore, ora che Sirio
il capo dissecca e le ginocchia.
(Trad. Salvatore Quasimodo)

Non devi ai mali conceder l’anima:
a nulla giova soffrire e piangere,
o Bucchi: far portare il vino
ed inebriarsi è il solo rimedio 

Il vino e l’ebrezza diventano così i temi dominanti di buona parte della produzione alcaica: lenire il dolore, esaltare le sensazioni, riscaldarsi dal freddo, ridere con pochi amici, dimenticare la propria condizione. Un modo di evadere dalla realtà che a distanza di 2600 anni si pratica ancora: l’ubriachezza come annebbiamento mentale e divertimento. Nel microcosmo del simposio, in cui gli uomini fuggivano dalle ansie e dalle ingiustizie, nasceva la poesia. Di certo oggi delle discoteche non si potrebbe dire altrettanto.

Beviamo. Perché aspettare le lucerne? Breve il tempo.
O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte,
perché il figlio di Zeus e di Semele
diede agli uomini il vino per dimenticare i dolori.
Versa due parti di acqua e una di vino;
e colma le tazze fino all’orlo:
e l’una segua subito l’altra.

Pioggia e tempesta dal cielo cadono
immense; le acque dei fiumi gelano.
Il freddo scaccia, la fiamma suscita,
il dolce vino con l’acqua tempera
nel cratere, senza risparmio;
morbida lana avvolga le tempie.

Giulia Bitto

Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk – Recensione Libro

Tutti gli avvenimenti e le coincidenze che cambiarono la mia vita  ebbero inizio un mese prima, e cioè il 26 aprile 1975, quando Sibel e io notammo una borsa della famosa marca Jenny Colon nella vetrina di un negozio

Sono queste le parole con le quali il premio Nobel Orhan Pamuk inizia a raccontarci nel suo libro intitolato “Il museo dell’innocenza”, l’avvincente quanto tormentata storia d’amore del giovane Kemal Basmaci, che si svolgerà a più riprese in una decina d’anni sullo sfondo di una Istanbul che cambia sia civilmente sia architettonicamente fra gli anni Sessanta e Settanta e che si prepara ad incontrare la modernità. Kemal entrerà nel negozio per esaudire il desiderio della sua fidanzata e promessa sposa Sibel, ma si presenterà a lui la giovanissima, bellissima e affascinante commessa Fusun, che si scoprirà poi essere anche cugina alla lontana dell’uomo.

I due cominciano a frequentarsi come amanti e la loro sarà una storia intrigante, torbida e misteriosa vissuta nella penombra e nell’oscurità delle stanze scelte come luoghi di incontro segreti per i loro appuntamenti amorosi. Dopo il fidanzamento ufficiale di Kemal alla presenza dei componenti di entrambe le famiglie dei promessi sposi, la ragazza decide di sparire senza lasciare traccia di sé.

Il giovane sprofonderà in un dolore lancinante per la perdita della donna amata, rinuncerà a Sibel, stravolgerà la sua vita e scombinerà i suoi progetti umani e lavorativi. Dopo otto anni, Kemal e Fusun si ritroveranno, ma anche in questa occasione la sorte giocherà loro alla fine uno scherzo tragico, che acuirà soltanto il dolore implacabile dell’uomo. Ma ciò che sconvolge il lettore e da una parte lo inquieta, riconoscendo di essere di fronte ad un uomo in preda alla sua stessa ossessione, è la decisione di Kemal di raccogliere tutti gli oggetti appartenuti alla donna misteriosamente dissoltasi per creare un museo dell’innocenza, da qui il titolo del romanzo, che possa renderle onore e impostare un vero e proprio percorso rammemorativo segnato da oggetti, articoli di giornale, fotografie, vestiti, gioielli e quant’altro.

Ecco come ci viene spiegata la sua psicosi: “L’unica cosa che rende questo dolore sopportabile è possedere un oggetto, retaggio di quell’attimo prezioso. gli oggetti che sopravvivono a quei momenti felici conservano i ricordi, i colori, l’odore e l’impressione di quegli attimi con maggiore fedeltà di quanto facciano le persone che ci procurano quella felicità.” L’avvenimento strabiliante risiede però nel fatto che questo museo dell’innocenza esiste davvero ed è stato inaugurato nel 2012 a Istanbul in Çukurcuma Caddesi, Dalgiç Çikmazi, 2, 34425, Beyoğlu, in quella che nel romanzo era indicata come la casa di Fusun. Con grande stupore del visitatore, ogni oggetto e brandello di memoria è esposta con cura e dovizia di particolari nelle varie teche seguendo una linearità cronologica e topografica nella mappatura del ritrovamento.

Nell’ultima sala si trova persino la ricostruzione della camera di Kemal, che Pamuk asserisce di aver davvero visitato e nella quale sostiene di aver ascoltato e preso nota della storia di quest’uomo, che a questo punto sembra essere esistito davvero. La sensazione di spaesamento e sperdimento è notevole: sto vivendo un sogno, l’autore mi sta prendendo in giro o davvero l’amore può raggiungere tali picchi di follia? Ai posteri l’ardua sentenza! 

Lucia Piemontesi

Argonautiche: Il dardo di Eros fa innamorare Medea

La complessa vicenda delle Argonautiche del poeta alessandrino Apollonio Rodio vede come protagonista femminile Medea, donna già comparsa nell’omonima tragedia di Euripide (vedi Psicologia femminile nella Medea). L’innamoramento di Medea avviene per i soliti capricci divini: Era e Atena convincono Afrodite a inviare suo figlio Eros sulla terra per fare innamorare la donna dell’eroe Giasone, affinché ella lo aiuti ad ottenere il vello d’oro. 

Ma la descrizione di Apollonio non si limita alla semplice esposizione dei fatti: riprendendo il modello di Saffo (vedi Fenomenologia d’amore in Saffo) egli delinea in modo nuovo e particolareggiato lo sconvolgimento interiore della donna, che, colpita dal dardo del dio, è arsa da un fuoco interiore e paralizzata. Come la fiamma di un tizzone, alimentato da una vecchia filatrice, brucia e fa brillare la casa, così Medea ha il cuore avvampato, gli occhi che brillano, le guance rosse. Le nefaste conseguenze di questo amore si svilupperanno nei capitoli successivi, per condurre al tragico epilogo che tutti conosciamo. 

Ciò che ci appare del tutto nuova e gradevole è anche la caratterizzazione di Eros, bambino petulante e viziato, che compie la missione posta da Afrodite con “sguardo ammiccante“, e, divertito, gongolando di gioia scappa dalla sala. A questa allegria si contrappone la sofferenza/amore di Medea, vittima dei capricci divini, che “consuma il suo animo nel dolore dolcissimo“. Eros dolce-amaro diceva Saffo: mai ossimoro fu più azzeccato.

Intanto giunse Eros per l’aria chiara, invisibile, violento, come si scaglia sulle giovani vacche l’assillo che i mandriani usano chiamare tafano. Rapidamente nel vestibolo, accanto allo stipite, tese il suo arco e prese una freccia intatta, apportatrice di pene. Poi, senza farsi vedere, varcò la soglia con passo veloce e ammiccando, e facendosi piccolo scivolò ai piedi di Giasone; adattò la cocca in mezzo alla corda, tese l’arco con ambo le braccia, e scagliò il dardo contro Medea: un muto stupore le prese l’anima. Lui corse fuori, ridendo, dall’altissima sala, ma la freccia ardeva profonda nel cuore della fanciulla come una fiamma; e lei sempre gettava il lampo degli occhi in fronte al figlio di Esone, e il cuore, pur saggio, le usciva per l’affanno dal petto; non ricordava nient’altro e consumava il suo animo nel dolore dolcissimo. Come una filatrice, che vive lavorando la lana, getta fuscelli sopra il tizzone ardente, e nella notte brilla la luce sotto il suo tetto – si è alzata prestissimo – la fiamma si leva immensa dal piccolo legno, e riduce in cenere tutti i fuscelli; così a questo modo terribile Eros, insinuatosi dentro il cuore, ardeva in segreto; e, smarrita la mente, le morbide guance diventavano pallide e rosse.

Giulia Bitto

Gatsby ed il Grande Sogno Americano – Recensione libro

Ho sempre ritenuto l’America un Paese alla continua ricerca di una propria identità, in balia di una modernità spesso solo apparente e di un materialismo arcaico e frustrante. L’America è l’essenza di un potere cieco, un’accozzaglia di innate contraddizioni: penso al diritto intoccabile alla legittima difesa ed al porto d’armi ed agli Stati in cui vige ancora la pena capitale; penso ai costi esorbitanti di banali cure mediche e alla facilità disarmante con cui spesso si ricorre al chirurgo plastico; penso alla patria del junk food ed alle numerose campagne contro l’obesità infantile, a livelli più che preoccupanti. Se l’America è questo e tanto altro, forse il sogno mai realizzato di una vita migliore, Jay Gatsby, protagonista del grande romanzo di Francis Scott Fitzgerald, ne è l’emblema vivente: siamo negli anni ’20, l’età del jazz, gli “anni ruggenti” per gli Stati Uniti, gli stessi del proibizionismo e dell’emancipazione femminile, il periodo “ideale” per poter realizzare il “Grande Sogno”.

E Jay Gatsby ci prova quando, con tutta la tenacia e la determinazione che da sempre contraddistinguono tale “ideale”, tenta di riconquistare il suo vecchio amore, Daisy Buchanan. Adesso Jay ha accumulato una fortuna, si sente padrone del mondo e può finalmente sposarla, se non fosse per il fatto che quest’ultima, che ha come unico Valore il denaro, ha sposato a sua volta il ricchissimo Tom Buchanan. Daisy ed il marito Tom, il quale ha una relazione con Myrtle Wilson, una donna povera e volgare, vivono a New York; Gatsby compra una villa lussuosissima proprio di fronte alla casa di Daisy, al di là della baia, e dà feste lussuosissime alle quali invita centinaia di persone (che spesso neanche conosce), nella speranza di poterla incontrare e sedurre con la propria ricchezza. Alla fine riesce ad ottenere un incontro con Daisy grazie a suo cugino, Nick Carraway, che è anche vicino di casa di Gatsby e narratore della storia;ed è a questo punto che Jay deve, purtroppo, scontrarsi con la realtà, e la realtà non è e non sarà mai all’altezza del suo sogno, un sogno destinato, nostalgicamente, a fallire: la felicità, infatti, non ha prezzo e non può essere comprata neanche con il potere e la ricchezza. Per cui, se il Grande Sogno Americano è quella speranza di felicità che fallisce, è quell’illusione che svanisce proprio nel momento in cui si tenta di afferrarla, allora Gatsby ne è sicuramente il simbolo, alter ego dello stesso autore e rappresentante designato di illogici e spietati meccanismi umani e sociali.

Fino alla fine egli lotta per un amore che esiste solo in un passato che non tornerà mai più, fino alla fine insegue l’idea dell’amore, un sentimento che probabilmente Daisy neanche conosce. Però, Jay continua a sperare, perché crede tanto fermamente quanto ciecamente nel Sogno Americano: e la sua speranza sa a tratti di inconsapevolezza, di follia –di ingenuità, se vogliamo- ma probabilmente è anche quella speranza che, in fondo, ci fa sentire vivi. Gatsby ha vissuto ed è, infine, morto per il suo sogno: Fitzgerald aveva già profeticamente compreso che il Grande Sogno Americano non si sarebbe mai realizzato, soprattutto in presenza di una discordanza tra ideali politici e realtà sociale. Nonostante tutto, però, sono i desideri e le speranze che tengono l’uomo in vita quindi, se è vero che la morte di Gatsby simboleggia la fine del Grande Sogno, è altrettanto vero che solo un ideale può dare senso a tutto il resto, ad una vita intera. Ecco perché, leggendo questo romanzo, rivedo sempre Gatsby fissare quella “luce verde all’estremità del molo di Daisy”, e ripenso allo stupore provato, a tutta la meraviglia racchiusa in un solo attimo, anche se breve; poco importa, tanto… “domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina…” forse riusciremo ancora a vedere quella luce verde, o forse no –chi può dirlo- ma continueremo comunque “a remare, barche contro corrente…”

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Memento mori, sì, ma con stile: Paul Koudounaris e i Martiri delle catacombe

Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, questo è l’unico commento possibile alla notizia del ritrovamento dei corpi di martiri cristiani adornati di sfarzose mise e gioielli preziosi di ogni genere. I corpi di questi ignoti martiri sono stati rinvenuti nelle catacombe romane nel 1578 e poi spediti silenziosamente nelle varie chiese d’Europa (soprattutto in Germania). Non si sa bene il fine di questo macabro rito, c’è chi sostiene che per ripagare il loro sacrificio, dopo la loro morte i martiri siano stati ricoperti di gioielli e doni, ma tutto ciò andrebbe a collidere con i fondamenti della chiesa cattolica, tanto devota alla povertà terrena quanto alla ricchezza spirituale.

Altri sostengono siano solamente degli stravaganti memento mori, ma anche qui, la tesi vacilla, in quanto i memento mori sono notoriamente dei promemoria per i fedeli, dei messaggi per ricordare loro di mantenere la retta via in attesa del giudizio divino, ma così agghindanti non potevano certo dare il buon esempio. Tutto quello che sappiamo è che le foto realizzate da Paul Koudounaris sono a dir poco spettacolari. L’intero reportage è racchiuso in un libro intitolato “Heavenly Bodies: Cult Treasures and Spectacular Saints from the Catacombs” , un vero gioiello da tenere in libreria per gli appassionati di antropologia e del macabro.

Consuelo Renzetti

La stravagante passione canora di Nerone

Sono in molti a non conoscere il lato canterino e lirico dell’imperatore romano a detta di molti più discusso e stravagante: Nerone. Il testo di riferimento è come sempre il caro vecchio Svetonio, inesauribile fonte di aneddoti divertenti e stranezze che è un piacere leggere. Ma andiamo alle origini del fenomeno: 
(Nerone) per migliorare la voce arrivò perfino a sopportare sul suo petto lastre di piombo, standosene supino, a liberarsi lo stomaco con purganti e vomitivi, a non mangiare frutta e cibi che potessero recargli danno, finché, allettato dai progressi, anche se la sua voce era sottile e rauca, gli venne l’ambizione di esibirsi sulla scena. Debuttò a Napoli e, quantunque un terremoto improvviso avesse diroccato il teatro, non smise di cantare se non dopo aver terminato il suo pezzo.”

Credete che questo sia assurdo? Le notizie pervenuteci sulla scalata al successo del giovane imperatore non finiscono qua:

In realtà non solo diede ordine di raggruppare in un solo anno quei concorsi che avevano luogo in date differenti, facendone perfino ripetere alcuni, ma, contrariamente alla consuetudine, ne organizzò uno di musica anche ad Olimpia. E per non essere disturbato o distratto da qualcosa nel bel mezzo di queste occupazioni, quando fu avvertito dal suo liberto Elio che gli affari di Roma esigevano la sua presenza, gli rispose in questi termini: «Sebbene tu sia dell’avviso ed esprima il desiderio che io mi affretti a tornare, tuttavia avresti dovuto consigliarmi ed esortarmi a ritornare degno di Nerone.» Quando cantava non era permesso uscire dal teatro, nemmeno per necessità. E così, stando a quanto si dice, alcune donne partorirono durante lo spettacolo, e molti, stanchi di ascoltare e di applaudire, sapendo che le porte erano sbarrate, saltarono furtivamente oltre il muro o si fecero portar fuori fingendosi morti.

Per fingersi morti pur di non ascoltare lo spettacolo possiamo immaginare la bravura del povero Nerone, che, sotto il punto di vista agonistico, credeva di essere come uno dei tanti contendenti di una gara canora:

D’altra parte è appena immaginabile con quanta ansia e con quanta emozione gareggiasse, quale gelosia provasse per gli avversari, quale timore mostrasse per i giudici. Si comportava nei confronti dei suoi avversari come se fossero stati in tutto e per tutto suoi pari, li spiava, tendeva loro agguati, segretamente li screditava, qualche volta li ricopriva di ingiurie se li incontrava, e, se erano molto bravi, cercava perfino di corromperli. Durante il concorso era così ossequiente al regolamento, che non osò mai sputare e nemmeno detergersi con il braccio il sudore della fronte. Per di più, poiché, nel corso di una scena tragica, si era affrettato a raccogliere il bastone che gli era sfuggito di mano, fu colto da paura e temette che quello sbaglio lo facesse escludere dal concorso, e si riprese soltanto quando un mimo lo assicurò che, tra l’entusiasmo e le acclamazioni del popolo, la cosa era passata inosservata. Era lui stesso che si proclamava vincitore; per questo, dappertutto, gareggiò, anche come banditore. E perché non restasse da nessuna parte il ricordo o la traccia dei vincitori dei giochi sacri, ordinò di abbattere, trascinare con un uncino e gettare nelle latrine tutte le loro statue e i loro ritratti.”

Sappiamo che Svetonio non fu una fonte affidabile e che si affidava ai pettegolezzi uditi qua e là: il suo metodo di indagine storica avrebbe fatto svenire Tucidide. Ma è innegabile che questi particolari, anche se gonfiati ed esasperati, facciano sorridere e ci delineino le personalità degli uomini più importanti esistiti a quel tempo. Per riportare tutte le curiosità su Nerone non basterebbero forse dieci articoli: in questo mi sono limitata a uno degli aspetti più divertenti del bizzarro imperatore. A voi consiglio vivamente di leggere tutte le Vite dei Cesari, un po’ per acculturarsi, un po’ per ridere.

Giulia Bitto

Niccolò Ammaniti: ‘Ti prendo e ti porto via’ – Recensione Libro

In questo noir dal retrogusto dolceamaro Ammaniti dimostra ancora una volta, con quel tocco inconfondibile di delicata spontaneità ed innata freschezza, di saper parlare direttamente al suo lettore, cui sembra sussurrare: <>, ti porto via dal mondo, da te stesso…Abile burattinaio di emozioni, infatti, sempre attento a dosare con equilibrio azione e descrizione in una narrazione che si rivela incalzante, l’autore conduce per mano il lettore in un mondo parallelo, in cui niente è come sembra, fornendo anche spunti di riflessione su tematiche di indiscutibile interesse. E’ un romanzo di formazione, d’amore, ma anche di rabbia e di solitudine-di passioni intense insomma-quello che si snoda attraverso le storie parallele dei due protagonisti, in cui giovinezza ed età adulta si incontrano e si scontrano tra un passato ingombrante, un presente incerto ed un futuro ancora tutto da scrivere, per poi ricongiungersi solo in un finale inaspettato.

La vicenda si svolge ad Ischiano Scalo, un paesino “di quattro case dove il mare c’è ma non si vede”, che diviene muto testimone di segreti inconfessabili…Pietro Moroni è un ragazzino timido ed imbranato, un sognatore inconcludente con una famiglia problematica alle spalle, innamorato di Gloria, sua compagna di classe: Gloria è bella e sicura di sè, è ricca, Gloria è quella smania mai sopita di poter vivere una vita migliore; dall’altra parte, invece, c’è chi- come Graziano Biglia, playboy fallito ed eterno bambino-una vita l’ha già vissuta e buttata via, ma trova finalmente una possibilità di riscatto quando incontra Flora Palmieri, insegnante di Pietro, donna sola e misteriosa. Inesorabilmente le due coppie inseguono la felicità alla scoperta del mondo, facendo spesso a pugni con l’amore, ma inesorabilmente dovranno fare i conti la vita, e…se “col tempo s’impara a vivere lo stesso”, vale la pena vivere ogni singola emozione, magari sognando anche sulle note di “Ti prendo e ti porto via” di Vasco!

Immigrazione: cosa ne pensava Seneca?

Il tema dell’immigrazione, a seguito degli innumerevoli sbarchi a Lampedusa, è ampiamente discusso e dibattuto: in televisione vediamo agitarsi diversi esperti, politici, opinionisti e altra fauna che popola i talk show. Ognuno chiaramente si sforza di dire la sua, sostenendo le più disparate tesi. Ma se il filosofo latino Seneca potesse ancora dire la sua, zittirebbe immediatamente i chiassosi diatribanti con una lucidità e una chiarezza sconcertante. 
Ph. G. Lotti
Seneca, nel 41 d.C., si trova in Corsica, costretto all’esilio dall’imperatore Claudio. Per consolare la madre Elvia deve convincerla del fatto che l’esilio è un semplice spostamento di luogo: mentre i corpi celesti rimangono immobili nel cielo, gli uomini per natura errano e si spostano, come dimostrano i Cartaginesi che vivono in Spagna, i Galli che vivono in Grecia ecc. Svariati sono i motivi per cui la gente migra da una parte all’altra, indagati con chiarezza, e non ci si deve sorprendere di questi spostamenti. La sede dell’uomo, riprendendo la dottrina stoica, è il mondo intero, non una città o una nazione in particolare. 
Come al solito, al posto di vociare frasi piene di retorica, dovremmo apprendere dagli antichi lezioni importanti: in poche righe Seneca annulla i boriosi discorsi di chi si ostina a non capire che l’immigrazione, prima di tutto, è un fenomeno storico e naturale radicato da sempre nell’uomo.
Si trassero dietro i figli e le mogli e i genitori carichi di vecchiaia. Alcuni, sbattuti qua e là da un lungo errare, non scelsero un luogo a ragion veduta, ma occuparono per stanchezza il più vicino, altri con le armi fecero valere il proprio diritto in terra altrui; certe genti, in cerca dell’ignoto, fu il mare a inghiottirle, certe si fermarono là dove le lasciò la mancanza di ogni cosa. E il motivo di abbandonare la patria e di cercarne un’altra non fu lo stesso per tutti: alcuni, fu la distruzione delle loro città a cacciarli in terre altrui, spogliati delle proprie, in fuga dalle armi nemiche; altri, fu un conflitto civile ad esiliarli; altri, un eccesso di sovrappopolazione a farli emigrare in gran numero; altri ancora, li fece andar via una pestilenza o il frequente aprirsi della loro terra in voragini o qualche guaio intollerabile dovuto a un suolo infecondo; certi, li sedusse la fama di una regione fertile, esageratamente magnificata. Chi è stato indotto ad emigrare da un motivo, chi da un altro: è chiaro, in ogni caso, che nulla è rimasto nello stesso luogo in cui è nato. Incessante è l’andirivieni del genere umano; ogni giorno c’è qualche cambiamento in un mondo così grande: vengono gettate nuove fondamenta di città, nuove genti hanno inizio, con l’estinguersi delle precedenti o il loro andarsi ad aggiungere ad altre più potenti. Ma tutti codesti spostamenti di popoli, che altro sono se non esili pubblici?
Giulia Bitto

Seneca e il valore del tempo: ogni giorno moriamo

Quante volte sprechiamo del tempo prezioso, oziando sul divano, tamburellando con un oggetto al posto di adempiere ai nostri doveri, o semplicemente stando sdraiati senza far nulla. Molti non credono nemmeno che esista il tempo perso: siamo noi i padroni delle nostre azioni e diamo noi il valore alle nostre giornate. Per Seneca, pensatore latino che non avrebbe bisogno di presentazioni, non è affatto così: il tempo è il bene più prezioso, è l’unico dono propriamente nostro. Non se ne deve sprecare nemmeno un attimo, poiché non conosciamo quanto ancora a lungo potremo vivere.

Morte di Seneca – David
Cotidie mori dice Seneca: ogni giorno moriamo. Il passato, anche quello più immediato, è morto: e mentre Orazio con il suo carpe diem vedeva la morte davanti l’uomo, incerta e inconoscibile, Seneca la vede dietro ciascuno. Il tempo che l’uomo ha a disposizione va vissuto per arricchirsi interiormente, per acquisire saggezza, e mai si dovrebbe gettare in attività inutili e improduttive. Nella prima epistola a Lucilio Seneca espone magistralmente questa teoria:

Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.

Ogni tanto bisognerebbe fermarsi: fermarsi e riflettere su come impieghiamo la nostra vita, il nostro tempo, e sapere discernere cosa è fruttuoso e cosa non lo è affatto. E non per un bene istantaneo o un piacere volubile (cosa che più si avvicina all’epicureismo), bensì per sconfiggere la paura più grande: il futuro. Seneca non fu certo un esempio di coerenza, ma i suoi scritti dovrebbero comunque insegnarci che il bene più grande sta a noi scoprirlo.

Giulia Bitto

Il Nobel per la Letteratura va ad Alice Munro, la ‘maestra del racconto contemporaneo’

Ha 82 anni, è canadese ed è la vincitrice del Nobel per la letteratura del 2013. Alice Munro, definita dalla giuria di Stoccolma “maestra del racconto breve contemporaneo”, non ha presenziato alla cerimonia di premiazione tenutasi nella capitale svedese: schiva come sempre e fedele al suo carattere, la Munro è stata rintracciata dal comitato di premiazione tramite un messaggio telefonico che le è giunto nel cuore della notte. “Mi ero dimenticata di questa cosa, ma è meraviglioso. Ora spero ci sia più attenzione per gli scrittori canadesi” ha dichiarato la Munro a caldo, dalla sua casa canadese di Clinton, Ontario.
La Munro è la tredicesima donna ad aver vinto l’ambitissimo premio: prima di lei tanti nomi illustri, tra i quali quello dell’italiana Grazia Deledda. La scrittrice riceverà un premio in denaro di 8 milioni di corone (circa 900.000 euro). In passato aveva già ricevuto numerosi premi, tra i quali il Governor General’s Award, importante riconoscimento canadese conquistato per ben tre volte. È stata anche nominata Duchessa dell’Ontario.
I racconti della autrice canadese sono famosi per la loro fine introspezione psicologica: la loro ambientazione tipica è quella delle cittadine di provincia dell’Ontario, e i soggetti ritratti sono spesso persone comuni. I temi trattati dalla Munro negli anni sono stati molteplici, e hanno riguardato il matrimonio, l’adolescenza, il divorzio e la vecchiaia. La scrittrice ha spesso riservato la sua attenzione alle donne e al loro ruolo nella società.
In Italia è arrivata grazie ad Einaudi (nel 1989), che ha curato quasi tutte le sue pubblicazioni. All’estero i suoi racconti sono spesso pubblicati da giornali illustri, come il The New Yorker ed il The Paris Review; tra i più famosi vi sono “Chi ti credi di essere?”, “Segreti svelati” e “In fuga”. Nel giugno scorso aveva annunciato di non voler più scrivere: resta da chiedersi se l’aver ricevuto l’ambito premio, per il quale era in lizza già da diversi anni, le farà cambiare idea.

Giovanni Zagarella